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1 agosto 2023
di Lidia Lombardi

Discese ardite e risalite

Golf Von Policastro 
Golf Von Policastro 
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AGI - Camminare lento, cadenzando il passo se è irta l’ascesa. Accelerare dove il terreno invita ad avere meno accortezze, a puntare senza troppo impegno il bastone nella terra ora secca, ora coperta di sassi, ora sotto un mantello di foglie. Sbirciare nell’humus, qua spunta un ramoscello, là vola il calabrone minaccioso, più avanti le corolle si mischiano ed è un quadro. Alzare lo sguardo nell’immenso. E allora – hai fatto appena venti passi e domini il fiatone – lo scenario diventa un altro rispetto a quello che avevi osservato pochi metri prima. Inaspettato, inedito, la cima mostra un’altra faccia, lo sperone di roccia ora è aguzzo e prima pareva tondo, la vista a valle rivela una radura impossibile a immaginare, un grumo di case, un’ansa di fiume, una caletta orlata di blu e verde.

Da quarant’anni la montagna è la mia estate, sentieri solitari mentre altrove impazza la folla d’agosto. Il bosco fresco, la mulattiera infuocata dal sole, la borraccia svuotata fino all’ultima goccia, poi la panca al rifugio. Finalmente il traguardo, conquistata la vetta. Il corpo indolenzito dalle cosce alla punta dello scarpone e lo spirito risanato, soprattutto.

Il trekking è una predilezione vincente, sempre più praticato. Il lockdown ha favorito la scelta della natura appartata.  Il numero degli “adepti” lievita, venti, trenta per cento in più. Contribuisce adesso anche la suggestione di “Le otto montagne”, il film tratto dal romanzo Premio Strega di Paolo Cognetti e premiato a Cannes ma anche dai David di Donatello.

Il trekking è una predilezione vincente, sempre più praticato. Il lockdown ha favorito la scelta della natura appartata

I cammini, religiosi e laici, intrigano membra e mente. Educano all’ascolto, fuori e dentro. È quel che conta, la dimensione intima proprio mentre siamo in outdoor, come si dice ora, scartando disdicevolmente quel “all’aria aperta” che già solo a pronunciarlo allarga i polmoni.

L’album di istantanee nei ricordi sciorina immagini incorruttibili. Alpe di Siusi, l’altopiano verde di malghe dove i sentieri sono nervature candide e all’orizzonte i picchi delle Dolomiti s’affacciano a 360 gradi. I Denti di Terrarossa, il Sassolungo, il Sassopiatto, lo Sciliar. S’affronta il percorso. La meta, a guardarla da lontano, quando, a una svolta, si svela, appare improbabile. Improbabile che dentro la gola impervia, lame taglienti di montagna, si possa incastonare quel bivacco attrezzato di tutto, camere per dormire e delizie altoatesine. Il Rifugio Demetz, 2.685 metri, pare sia stato poggiato lì, nella Forcella del Sassolungo, da un dio fornito di lunghe braccia e mani delicate (l’altro contrafforte si chiama Cinquedita).

Il Cervino è un mistero, per quel corno in cima (in patois valdostano si chiama Gran Becca) che pare inchinarsi sul versante italiano e cambia prospettiva su quello svizzero. Il sole, una nuvola, il mezzogiorno, il tramonto mischiano le creste, a ogni cambio di luce e di angolazione spuntano nuovi diedri. La piramide incute rispetto. Per camminatori senza pretese il Rifugio Teodulo, 3.317 metri, è un approdo distante ma abbordabile. Affascinante, soprattutto, perché sporgendo lo sguardo s’indaga il confine con la Svizzera, là dove il Cervino diventa, in tedesco, “Matterhorn” e l’abitato è la glamour Zermatt. Ad agosto trovi ancora il bianco del ghiacciaio. Il tetto e i muri del rifugio sono ormai lì, in venti minuti ci si arriva, ma si cammina guardinghi, temendo crepacci. Il sole pieno ti investe sulla spianata con i tavoli di legno e dentro, nel salone a vetrata, il panorama include, mentre sorseggi un bicchiere di vino, la catena delle Grandes Murailles.

Il centro Italia e il sud donano montagne a misura d’uomo, dove la vertigine è controllata. E però ti stuzzica la presenza costante di un genius loci, che sopperisce magari alla organizzazione turistica del Nord. Appaiono, sui tratturi, sulle scoscese pietraie, sui balconi naturali protetti da corde, santi e contadini, ruderi medievali e casolari, leggende e dispute paesane. Come nella maestosa Maiella. In un passaggio stretto del Blockhaus – i ragazzini vanno tenuti per mano e ci si aggrappa a una fune – spuntò da un incavo della roccia un pastore, e ci tendeva una caciotta, per vendercela, portata lassù, presumibilmente con qualche altra forma, chissà da dove.

Il centro Italia e il sud donano montagne a misura d’uomo, dove la vertigine è controllata

Nei Simbruini, tra Cervara e Subiaco, a mezza costa, si nascondono i resti del monastero intitolato a Santa Chelidonia.  L’ascesa si affronta da Vignola. Ombreggiano lecci, querce, pini. Ciuffi di salvia e origano selvatici sul sentiero. Gli scorci sono quelli della Valle dell’Aniene, di tanto in tanto i rami incorniciano la Rocca di Subiaco. Poi un’ultima salita, accompagnata da un corteo di cipressi. La meta sono ruderi possenti: arcate a sesto acuto, monconi di contrafforti in rude pietra. E una chiesina, protetta dalla roccia di una morra.

Non si compie il “pellegrinaggio” soltanto per riempire il cesto di funghi. L’input è storico, artistico, agiografico. In questi boschi visse sessant’anni nel dodicesimo secolo Chelidonia, la prima eremita. Pioggia e fulmini li schivava sotto il tetto della Morra Ferogna, dove prima della nascita di Roma si venerava una dea della fertilità. Un bastone serviva alla futura santa per raggiungere il picco più alto. La tradizione narra che lassù  lo piantasse nella terra e, appoggiandovisi, ascoltasse la messa officiata dal Papa nella basilica lateranense. Lei, nata a Cicoli nel Reatino intorno al 1097 e lasciata a vent’anni la casa paterna, elesse i monti sull’Aniene frequentati cinquecento anni prima da San Benedetto a propria dimora. Rocce rossastre, venate di azzurro e bianco. Le dominava e perciò il suo nome, da Cleridonia, fu mutato in Chelidonia, che in greco vuol dire rondine.

 Una sola volta abbandonò boschi e digiuno, tra il 1111 e il 1122: pellegrinaggio a Roma e al ritorno sosta a Subiaco dove vestì l’abito benedettino nel monastero di Santa Scolastica. Seguirono trent’anni di solitudine e preghiera nella spelonca. Dove morì, tra il 12 e il 13 ottobre 1152, secondo le testimonianze degli abitanti del posto, che le recavano qualche nutrimento. E che otto anni dopo, finito il “periodo della grandine”, videro sorgere proprio tra l’intrico della Natura un monastero, voluto dall’abate Simone. In un’urna di marmo il corpo di Chelidonia fu trasportato qui da Santa Scolastica, dov’era stato sepolto. Ma a inizio del ’400 scorribande di soldataglie giunte dal contiguo Regno di Napoli toccarono il monastero. Papa Martino V lo soppresse. Le strutture cominciarono a decadere,  le spoglie mortali di Chelidonia trovarono definitiva sepoltura a Santa Scolastica. Adesso, nella chiesetta superstite, pellegrinaggio di fedeli e l’arrivo di qualche escursionista. E un ringraziamento autografo. Lo firma “Antonio Mancini di Risano, detto lo zampognaro” che giunse all’impervia meta per l’ultima volta nell’anno 2000, sfidando i suoi 87 anni.

Lo scenario è uno dei mari più belli d’Italia, insieme con la costa: tra Sapri e Maratea, tra l’ultimo lembo della Campania e i 37 chilometri di costa lucana sul mar Tirreno

Diversa suggestione, tutta laica, nel sentiero che ho appena affrontato. Lo scenario è uno dei mari più belli d’Italia, insieme con la costa: tra Sapri e Maratea, tra l’ultimo lembo della Campania e i 37 chilometri di costa lucana sul mar Tirreno. Si prende dal porto della città dove “trecento giovani e forti” sono morti, avendo di fronte il Golfo di Policastro, fino a Capo Palinuro. L’escursione impegna per dieci chilometri tra andata e ritorno, camminando alti sopra la costa punteggiata di calette, e incontrando subito lo Scoglio dello Scialandro (l’unico superstite dal naufragio di una nave greca) sul quale c’è, a scrutare il mare, il simulacro in bronzo della Spigolatrice.

Incuriosisce il nome del sentiero: “Apprezzami l’asino”,  ovvero “Apprezzamm ‘u ciucciu” in cilentano. Fino ai primi del Novecento questo cammino era l’unico che collegasse la costa di Sapri a quella del Materano ed era utilizzato per il trasporto con bestie da soma di derrate prodotte dai locali. Stretto tra la montagna e il mare, in alcuni punti non consentiva il passaggio di due asini carichi di bisacce che procedessero in senso opposto.

E poiché questi pazienti quadrupedi non sanno camminare all’indietro, la questione si risolveva cinicamente facendo una stima dell’asino di minor valore, dandone la metà della valutazione al proprietario e buttandolo di sotto, tra scogli e mare. Una leggenda, che cristallizza un fatto accaduto magari una volta. Ma tant’è. “Apprezzami l’asino” diventa il paradigma di una condizione di vita povera e rude. Si fanno incontri significativi durante il percorso, sotto la macchia mediterranea. Due torri costruite dai Borboni per avvistare i pirati saraceni, la ripida discesa a mare che conduce alla grotta e al pozzo di Cartolano, l’altra più agevole per raggiungere le Saline e la spiaggia degli Angeli. L’ultimo tratto è per rocciatori. Un promontorio a picco è il bastione naturale prima del Canale di Mezzanotte, che segna il confine tra le due regioni.

Discese ardite e risalite, dagli Appennini alle Alpi. Il cuore in vetta.

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