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18 settembre 2023
di Alessandro Galiani

In vino veritas

 Uva da vino Chianti, immagine d'archivio
 Uva da vino Chianti, immagine d'archivio
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Il vino inebria, ubriaca ma ti fa anche dire la verità, in vino veritas, nel senso che toglie le inibizioni, ti fa parlare, e, a volte, ‘sparlare’. "Per me è lavoro" dice Paolo Trimani, un professionista ma anche un amante del vino, che parla a ruota libera, insieme al suo amico, il sommelier Andrea Gaetano, della loro comune passione, di cosa è il vino, delle loro esperienze enologiche e delle differenze tra vini italiani e francesi.

Il vino non lo bevi solo perchè hai sete, ma è un simbolo di civiltà, un dono degli dei. Per i cristiani nella messa il vino diventa il sangue di Cristo, un segno di salvezza, mentre per i greci era diverso, non lo bevevano puro, ma lo mescolavano con l’acqua in uno speciale recipiente di ceramica, una coppa chiamata kylix, a figure nere e rosse, utilizzata nei banchetti. Questa tazza era dipinta all'esterno ma anche all'interno, spesso con figure erotiche, o pornografiche, una parola greca composta da pórnē, che vuol dire ‘prostituta’, e gráphos, che significa ‘scrivere, disegnare’. In senso proprio, dunque, il pornográphos è ‘chi scrive sulle prostitute’ e, riferito al kylix, è un’ampia coppa per bere vino, decorata da questi ‘pittori di prostitute’, che disegnavano con arte figure, corpi che si svelavano mentre bevevi, svuotando il calice.

D'altra parte il termine "vino" ha origine dal verbo sanscrito vena ("amare"), da cui deriva anche il nome latino Venus, la dea Venere. Ed è la bevanda di Bacco, che inebria, ubriaca, ti rende folle e, nello stesso tempo, ti fa dire la verità, in vino veritas, nel senso che ti toglie le inibizioni e ti fa parlare, e, a volte, ‘straparlare’. Insomma, il vino è tante cose, ma soprattutto è una bevanda piacevole, che allieta, rallegra, dà gusto, fa perfino bene, se bevuta con moderazione, a piccole dosi, cosa che non sempre accade… Col passare dei secoli la cultura del vino si è trasformata, ma ancora oggi esso rappresenta qualcosa di speciale, associato alla tavola, alla convivialità, con cui si brinda, si festeggia. Dunque, che cos’è un vino? “Veramente per me è lavoro” fa Paolo Trimani, che incontro da Buccone vini e oil in via Ripetta a Roma, un locale che ha cento anni di storia. Paolo è il capo famiglia di una ditta, i Trimani appunto, che vendono vino a Roma da circa 200 anni.

Il termine "vino" ha origine dal verbo sanscrito vena ("amare"), da cui deriva anche il nome latino Venus, la dea Venere. Ed è la bevanda di Bacco, che inebria, ubriaca, ti rende folle e, nello stesso tempo, ti fa dire la verità, in vino veritas, nel senso che ti toglie le inibizioni e ti fa parlare, e, a volte, ‘straparlare’. Insomma, il vino è tante cose

Sono una dinastia del vino, dei 're' del vino, un marchio di successo che 'Wine Enthusiast', la rivista di vini più letta negli Stati Uniti, ha inserito tra le 10 enoteche più iconiche, sarebbe a dire più rappresentative, del mondo. "I Buccone - spiega Paolo - hanno rilevato il locale di via Ripetta nel 1969 dando il loro nome a un locale storico. La moglie di Domenico Buccone si chiamava Maddalena Trimani, una delle sorelle di mio padre", Marco Trimani, amico di artisti come Maccari, Manzù e tanti altri, un imprenditore del vino che ha sviluppato la storica Trimani vinai in Roma a via Goito, vicino alla Stazione Termini, consolidando il passaggio dagli orci di terracotta alle bottiglie. A via Ripetta i Trimani si affiancano ai Buccone nel 2019. "Io sono qua e non a via Goito perchè le piantine vanno innaffiate spesso, serve una presenza continua.

Qui dentro c'è un'atmosfera particolare. Siamo al centro di Roma, nel mezzo del tridente. Via del Corso, qui affianco, negli Usa sarebbe la Main street, il cuore, l'asse di Roma. Via Ripetta è una via di cerniera, qua c'era il porto", un gioiello del '700 distrutto quando hanno innalzato i muraglioni per contenere le piene del Tevere. "Questa vineria era il locale del porto - spiega Paolo - Qui succedeva di tutto, qui ho stappato bottiglie di Brunello Reserve 1990, ma se sto in cassa servo clienti che vengono tutti i giorni e chiedono vino da tavola". A Paolo provo a fare la domanda delle 100 pistole, quella da un milione di dollari: che cos'è per te il vino? "Il vino è tante cose. Provare a scomporlo in fattori primi, come fanno tanti esperti, è qualcosa di inutile e impossibile. Di negativo. Il vino è qualcosa che bevi in una pausa, che ti gusti, oppure, se esci a cena con una donna, può diventare una cosa romantica, o è l'intermezzo che ti concedi in una cena d'affari.

Non saprei dirti cosa è per me. Io ci sono caduto dentro dalla nascita. Mio padre mi ha fatto capire quanto è bello lavorare in questo settore, ma è pur sempre lavoro". Paolo è un professionista del vino ma è anche un esperto, un conoscitore, un amante di questa bevanda alcolica. Gli chiedo: come definiresti un vino importante? Lui inizialmente evita di rispondere in modo diretto ma non elude la domanda. "I vini - spiega - possono essere buoni, molto buoni, o grandi vini. Per fare un buon vino serve una buona uva e lavorarla bene. Per fare un vino molto buono bisogna essere un po' più avanti su questa strada. E per fare un grande vino ci vuole il tempo, la maturazione, tutte cose che non si comprano". "Il vino - prosegue Paolo - non è una lotteria. Pianti una vigna e aspetti 4 anni per avere il primo succo, il mosto da fermentare. Un'azienda di solito imbottiglia il vino importante da vigneti che hanno almeno 15 anni. Un vigneto vecchio deve avere almeno mezzo secolo.

Un grande vino deve avere corpo, aromi, per i quali serve tempo. E non tutti i vini reggono a questa prova. Vanno selezionati. L'importante per un vino non è essere il numero uno, ma arrivare sempre sul podio. I vigneti non possono dare ogni anno il meglio, ma possono aspirare a essere delle buone vigne. Poi dipende da vari fattori. Se piove tantissimo, come è successo nel 2014, il vino per forza ne risentirà. In ogni modo un grande vino non necessariamente deve costare 500 euro a bottiglia. Ci sono grandi vini che hanno meno di 10 anni e che non hanno fatto il passaggio in botte di legno, ma hanno lo stesso carattere, personalità". Un esempio? “Secondo me il Cesanese, un vino laziale, in prospettiva ha una riconoscibilità superiore alla media. Sarà un grande vino”. Perché? “Adesso il Cesanese è un vino che va e nel Lazio lo stanno coltivando un po’ ovunque, anche sulla costa a nord di Roma, ma il vero Cesanese, quello del Piglio, di Olevano Romano e di Affile, quello della zona classica delle tre doc, coltivato tra Anagni e Subiaco, ha un grande futuro davanti a sé, perché è una varietà che in quella zona c’è da secoli, ha una sua specificità organolettica, una grande adattabilità, una sua unicità”.

E quanto costa un buon Cesanese? “Non più di 40 euro. Non è necessariamente il prezzo che fa grande un vino” dice Paolo, aggiungendo: “E’ quel certo non so che… che esiste ma non è codificabile… “. Tanto per dare un'idea, tra i vini più costosi al mondo, c'è la botte da 228 litri di Piéce des Présidents Corton Renardes Grand Cru, un'istituzione fondata nel XV secolo nel cuore della Borgogna e un vino battuto nel 2020 all’asta dell’“Hospices de Beaune”, la più antica asta di charity del mondo del vino, per 800.000 euro. In questo caso la vendita non ha riguardato una bottiglia, per cui in realtà il bottiglione più costoso al mondo è un Cabernet rosso californiano da sei litri, uno Screaming Eagle del 1992, venduto al prezzo di 500.000 dollari. A prezzi più modici (si fa per dire… ) troviamo uno Château Margaux del 1787, che ha una storia curiosa: la bottiglia faceva parte della collezione di Thomas Jefferson (il terzo presidente degli Stati Uniti d’America) e apparteneva al mercante di vini William Sokolin, che nel 1989 la portò con sé a una cena organizzata da Château Margaux presso il Four Season Hotel di New York.

Qui un cameriere la urtò, facendola cadere e mandandola in pezzi. Sokolin chiese all'assicurazione un risarcimento di 500mila dollari, ottenendone 225mila. La storia della bottiglia è famosa, mentre quello che è capitato al malcapitato cameriere, l’autore del danno, non è altrettanto noto, anche se al riguardo, presumo, non c'è da aspettarsi niente di buono. Tuttavia nel business del vino non ci sono solo queste bottiglie super-costose. Anzi. Basti pensare che il vino italiano più venduto al mondo, è un rosso con le bollicine: il Lambrusco. Ben 13 milioni di litri di questo vino vengono esportati ogni anno, mentre il brand più venduto è il Tavernello, un vino da tavola da circa 4 euro al litro, che fattura oltre 400 milioni di euro l’anno, anche se occorre fare una precisazione doverosa: stiamo considerando i vini e non gli spumanti, perché in quel caso a primeggiare sarebbe il prosecco con oltre 250 milioni di litri ogni anno esportati oltre i confini italiani. Detto questo, parlando di classifiche, va ricordato che l’Italia ha più volte sorpassato la Francia per produzione di vino e per numero di bottiglie vendute oltre confine.

Tuttavia in termini di fatturato e di prezzi la Francia ancora ci surclassa. I viticultori francesi infatti esportano il loro vino a una media di 8,8 euro al litro, mentre quelli italiani sono fermi a quota 3,6 euro al litro. Perchè? Giro la domanda ad Andrea Gaetano, amico di lunga data di Paolo Trimani, di professione ingegnere ma da 15 anni rinomato sommelier: “Questa mia passione per il vino – dice Andrea - me l’ha in gran parte trasmessa Paolo: ero incantato quando parlava di vini con un entusiasmo, una competenza e un amore a livelli che non ho più trovano in giro per il mondo.

Comunque, per venire alla domanda, penso che tra noi e la Francia c’è ancora un gap molto, molto grande. Ho bevuto dei vini italiani, come gli Amarone del ’67 e certi Barolo che sono dei veri capolavori. Andiamo forte, ma la Francia ancora ci batte, ci fa mangiare la polvere. Col marketing stanno anni luce avanti a noi, ma non è solo una questione di tecniche di vendita. E’ che i francesi s’identificano completamente coi loro grandi vini. Per esempio nella regione dello Champagne adottano la suddivisione dei villaggi in Autre Cru, Premier Cru e Grand Cru per definire la miglior produzione di vino di una determinata zona. I Gran Cru sono 17 villaggi e in alcuni casi, come a Verzenay, hanno preso il nome del vino”, come se da noi il comune di Castagneto Carducci, dove si produce il Sassicaia, improvvisamente decidesse di chiamarsi col nome di quel vino, che tra l’altro è diventato Doc solo nel 1994.

“I vini francesi – spiega Andrea – hanno un disciplinare molto rigoroso, mentre da noi il Sassicaia, che pure è un vino raffinatissimo, era classificato come un vinaccio qualsiasi fino ai primi anni Novanta. Anche il Duemani della Toscana, che è il primo vino biodinamico italiano, è un Igt. Questo in Francia sarebbe impensabile”. “Oppure prendi il Cesanese – dice Andrea – che piace tanto a Paolo. Lui stesso, quando abbiamo organizzato degli assaggi di questo vino, ha riconosciuto che il Cesanese sa un po’ di ‘burino’. Per carità è un ottimo vino, il vitigno è identificativo di un territorio ma dandone un giudizio assoluto direi che non reggerebbe il confronto con certi Cabernet per esempio o con altri vitigni internazionali, per non parlare dei grandi vini francesi…”. Un’altra differenza importante tra i vini italiani e quelli francesi è legata alla morbidezza. I vini italiani, secondo Andrea - mentre per Paolo questa caratteristica è più sfumata - sono più duri, cioè hanno in generale dei livelli di mineralità e di acidità più alta.

“Nei vini francesi - spiega Andrea - questa durezza viene arrotondata, anche per motivi commerciali, non svolgono tutti gli zuccheri in alcol durante il processo di fermentazione (piccola quantità di residuo di zuccheri nel vino) o con altre tecniche di cantina (pressatura, contatto con le bucce) in particolare grazie alla microssigenazione dei mosti, che nel calice ne ammorbidiscono e ne addolciscono il sapore. Vini come il Taurasi, o il Sagrantino - dice ancora Andrea – che hanno molto tannino e molta acidità in Francia sarebbero impensabili e io stesso ho sentito alcuni grandi produttori di Sagrantino ammettere candidamente che anche loro, se uscissero per la prima volta a cena con una ragazza, probabilmente non l’ordinerebbero”.

"La differenza tra i grandi vini francesi e quelli italiani - dice Paolo Trimani - secondo me è soprattutto legata al tempo. In Francia sono partiti prima, molto prima. E’ vero che la vite nasce a est, arriva in Grecia nella notte dei tempi dalla Georgia, dal Caucaso. Poi passa dai greci ai romani, i quali insegnano ai galli, che bevevano birra, come coltivare la vite. Tuttavia in epoca moderna la Francia diventa la patria del vino. Per esempio, la classificazione dei grands crus del Médoc, siamo a Bordeaux, risale al 1855 in pieno Secondo Impero, quando in Italia eravamo all'età della pietra in fatto di organizzazione enolica. I Borgogna sono stati classificati negli anni Venti del secolo scorso, ma i vigneti risalgono ai tempi delle grandi abazie medievali. I francesi in questo non hanno rivali. Ci hanno messo mille anni per dimostrare che un vigneto è migliore di un altro". Insomma, l'Italia ha Michelangelo, Raffaello, Bernini e i francesi nel vino hanno l’equivalente: primeggiano. In Italia oggi trovi dei vini fantastici, ma resta il fatto che la Francia continua a guardarci dallo specchietto retrovisore”. Come spiegare questa differenza? "Ci sono vini – dice Paolo - che so che sono grandi già prima di assaggiarli.

Non è questione di mi piace, non mi piace, ma di qualità. Tuttavia davanti a una carta di vini, sceglierne uno dipende da tante cose. Talmente tante che perfino io, qui in via Ripetta, dove la scelta dei vini è amplissima, penso che mi smarrirei. Probabilmente mi lascerei guidare dalla novità, dalla curiosità, oppure da un vino che conosco bene è che voglio riassaporare”. Ma come si è affinato, gli chiedo, questo tuo gusto del vino? “A 20 anni – racconta Paolo – negli anni ’80, ho provato dei vini che per me sono stati delle rivelazioni. In quegli anni c’è’ stato lo scandalo del metanolo e Il mondo del vino italiano ha rischiato di venirne travolto, si è trovato davanti a un bivio, ha dovuto fare un ‘salto’ e per fortuna l’ha fatto nella direzione giusta, quella della qualità. Io nell’86 avevo 19 anni, stavo all’università e bevevo vino in compagnia, con gli amici, uno dei quali era Andrea. In quel periodo ho imparato ad assaggiare il vino, ad assaporarlo, a conoscerlo”. A quell’epoca, ricorda, “facevamo delle gare bendati per riconoscere un vino dall’altro, si beveva parecchio, ma era anche importante rimanere vigili, non berne troppo, perché il vino è traditore, devi prenderlo a piccole dosi”. “Da ragazzino ho accompagnato molte volte mio padre ai Castelli quando era pronto il vino nuovo - racconta - per ad assaggiare e scegliere quello che poi si vendeva sfuso. Erano cantine coi pavimenti in terra battuta e le vasche di cemento.

Si assaggiava il vino appena fatto, faceva parte del rituale la sputacchiata in terra e si trattava sul prezzo. Così mi sono fatto le ossa”. Poi, nella seconda metà degli anni Ottanta, la situazione è cambiata. Da quel momento in Italia si è iniziato a bere meno vino e ad andare più sulla qualità. E’ cambiato il gusto. “Il vino proveniente dalle botti barricate dal sapore di vaniglia che fino agli anni Ottanta era il non plus ultra, oggi solo a pensarci mi fa sorridere” confessa Paolo. “I produttori, quelli più bravi – aggiunge - hanno iniziato a sperimentare e l’hanno dovuto fare da soli, senza nessuno che li consigliasse, per intercettare questa nuova domanda di qualità che veniva dal mercato. In Francia queste cose si facevano da tempo, qui da noi abbiamo iniziato a quell’epoca, in modo spesso avventuroso”. “Certi vini prodotti tra l’85 e l’89 in Toscana e Piemonte – ricorda ancora Paolo - sono straordinari. Recentemente mi è capitata per le mani una magnum di un vino toscano del 1990. Era una cosa meravigliosa. Ho chiamato il produttore, gli ho fatto i complimenti e lui si è messo a ridere e mi ha confessato che quando l’ha imbottigliato non avrebbe mai pensato che avrebbe retto per tanti anni…“.  “Oggi – racconta Paolo – i grandi vini sono fatti con maggior cura, in modo diverso dal passato, non sempre meglio. Nei vigneti fino agli anni Ottanta non si piantavano più di 4.500 piante per ettaro, oggi se ne riescono a piantare anche 10.000.

L’effetto di questa scelta sulla qualità dell’uva e quindi sul vino lo vedremo tra 30 anni. Per cui è difficile oggi fare un paragone col passato”.  “Non dimentichiamoci – aggiunge – che produrre vino nobilita: le più grandi aziende di vino spesso erano di proprietà dell’aristocrazia o del clero”. I signori non bevevano il vino comune che si comprava all’osteria, quello che gli osti a Roma mettevano nei decimi di litro, detti, non  caso  ’sospiri’ per l’estrema esiguità della misura, nei ‘chierichetti’ (quartini), nelle ‘fojette’ (mezzi litri), i ‘tubbi’ (litri) e nel ‘barzilai’ (due litri). “A Roma quando i piemontesi sono entrati a Porta Pia – dice Paolo, la cui famiglia nel 1870 all’epoca della breccia, vendeva vino a Roma già da mezzo secolo - sono passati per i vigneti di quella zona, perché fin sotto le mura aureliane intorno all'odierna via Veneto, c’erano solo orti e vigne”. Il marchese del Grillo, quello del film di Monicelli interpretato da Alberto Sordi, non beveva il vino corrente da osteria. Aveva il vino ‘bbono’, che gli faceva il fattore, il quale teneva sempre le botti piene, altrimenti il vino s’inacidiva. Il fattore del marchese del Grillo sapeva come fare il vino buono, ma la sua tecnica era empirica, mentre in Francia, più o meno nello stesso periodo, ai primi dell’800, in epoca napoleonica, quando i Trimani dagli Abruzzi si spostarono a Roma e iniziarono a vendere vino, erano già più metodici tanto che fu Pasteur a definire scientificamente la fermentazione alcolica .

Tuttavia anche in Francia, dove hanno inventato lo champagne, spesso s’arrangiano. Lo champagne nasce nel nord Europa, perché lì faceva più freddo, per cui dovevano sbrigarsi a vendemmiare e poi dovevano lavorare un’uva che non maturava bene. Nel nord della Francia e in Germania quest’uva aspra, era raccolta e imbottigliata presto e a ottobre, quando da noi si vendemmiava, la sua fermentazione per il freddo s’arrestava, per cui i francesi ci aggiungevano zucchero ed altri lieviti, per far ripartire la fermentazione in bottiglia. A differenza dello spumante, che in Italia fermenta la seconda volta in vasca e poi è imbottigliato, lo champagne in Francia era dunque fatto fermentare una seconda volta direttamente in bottiglia, col risultato che per tantissimo tempo nessun vetro e nessun tappo erano in grado di reggere alla pressione di quella fermentazione ed esplodevano come bombe. Per evitare che questo avvenisse il monaco benedettino, Pierre Pérignon, nel '600, nonostante fosse astemio, decise di far colare la cera d'api all’interno del collo delle bottiglie per assicurarne una chiusura ermetica e rinforzò il vetro delle bottiglie dello champagne, inventando così un metodo che consentiva al vino di fermentare in sicurezza creando le famose bollicine. E’ così che nasce lo champagne, con l’invenzione di tappi e di bottiglie in grado di reggere all’eruzione di una seconda fermentazione. Oggi però, coi cambiamenti climatici, tante regioni fredde della Francia dove è nato lo champagne non sono più così fredde.

“Ci sarà pure una ragione – spiega Andrea – se in Francia tanti vitigni di champagne li hanno levati e hanno lasciato solo quel disgraziato di Meunier…“.  Cosa? Mi spiega: si tratta di una varietà di vitigno che fa sempre parte della grande famiglia dei pinot. Il suo particolare nome deriva dal termine “Meunier”, che significa mugnaio e richiama la caratteristica pruina (quella che hanno anche le prugne), una sorta di patina bianca presente sugli acini dell’uva e le foglie della vite, che sembra essere ricoperta dalla farina. Si tratta di un vitigno che pur discendendo direttamente dal Pinot nero, ha caratteristiche di produzione migliore e più abbondante e proviene da una vite che matura tardivamente e per questo, essendo coltivato in regioni molto fredde, non è danneggiato dalle gelate.

"Questo vino - racconta Andrea - non si può dire che sia proprio all’altezza dei suoi due fratelli nobili. Il 14 luglio 2019, festa nazionale francese, siamo andati a Prouilly dalla maison Alain Couvreur (Premiere Cru) da un vecchietto di 86 anni che ci aspettava alla vigna coi suoi figli, il quale candidamente ammetteva che lo coltivava da 60 anni ma non l'amava. E se Krug (una delle grandi marche di champagne francese) si guarda bene dall'usare questo pinot per produrre il suo Clos d'Ambonnay o il Clos du Mesnil, che arrivano a costare decine di migliaia di euro a seconda delle annate e sono prodotti con chardonnay in purezza e pinot nero in purezza, un motivo ci sarà...".  Insomma, anche la Francia ha i suoi ‘scheletri nell’armadio’.

“Quella del Meunier è una delle regioni più a nord della Francia, dove lo champagne nasceva per miracolo… Ora però col riscaldamento globale… “. Che succede col riscaldamento globale? “Influisce, influisce tanto… - dice Andrea – cambia la percentuale di vitigni che possono dare lo champagne, si fanno altri giochi”. Insomma, il vino è un prodotto ma è anche biologia, è natura, è una cosa viva. E il climate change probabilmente aprirà un altro capitolo della millenaria storia del vino. Andrea inizia a parlarne e non la finirebbe più. Ma è un’altra storia…. tutta da raccontare.

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