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26 settembre 2023
di Marco Patricelli

Una coppa per la sete, due per l’allegria, tre per la voluttà e quattro per la follia

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Gli antichi romani sapevano di cosa parlavano. Il loro vino era molto lontano da quello al quale siamo abituati, ma la filosofia è la stessa: alimento, piacere, raffinatezza, godimento del corpo e dello spirito. Ne conoscevano i pregi e i difetti, uno dei quali tale da mettere in forse l’essenza stessa della romanità quando chiamava in causa le donne. E così, per evitare tentazioni di adulterare la sfera familiare con l’infedeltà, colpirono con forma dolcissima e sostanza amarissima il gentil sesso che si accostava al nettare di Bacco per prevenirne ogni leggerezza e disinvoltura con la scusa dell’ebrezza alcolica. E inventarono lo ius osculi: il diritto del marito di baciare la moglie, ma per verificare se avesse bevuto vino di nascosto.

Gli antichi romani inventarono lo ius osculi: il diritto del marito di baciare la moglie, ma per verificare se avesse bevuto vino di nascosto.

Quell’apostrofo rosa era il suggello non di una passione ma un controllo aromatico col crisma del diritto: un alcoltest ante litteram che non prevedeva ritiro della patente per condurre la biga, ma una dura punizione che poteva arrivare alla messa a morte di colei che si abbandonava al piacere del vino. Il rischio, per i romani, era che con quella scusa da un piacere della gola ci si potesse abbandonare a quello del corpo a causa della ritenuta inferiorità fisica e morale della donna (infirmitas sexus), incapace di dominare i sentimenti, e quindi capace con la sua levitas animi come la chiamò Gaio, di inquinare il sistema della discendenza. Era, questo, uno dei fondamenti sociali su cui poggiava una civiltà che si riallacciava a princìpi già propri dei greci. I quali, guarda caso, erano stati i maestri dei romani in tante cose, compresa l’arte di curare la vite e di vinificarne i frutti, e propagatori del culto di Dioniso e quindi quello di Bacco. In questo stava lo spartiacque (!) con il mondo dei barbari, e quindi della civiltà della vite e dell’ulivo che diventava cultura e oggi stile di vita.

Il nettare di Bacco era dunque un’esclusiva degli uomini, il tabacco non c’era perché l’America non era neppur immaginata, e su Venere e sulle sue tentazioni non c’erano dubbi. Il diritto di baciare, con tutto quanto ne derivava, si riteneva fosse stato introdotto già da Romolo, quindi con la fondazione stessa di Roma. Già Omero aveva parlato dei pericoli del vino nell’Odissea, per quanto in chiave epico-eroica: Ulisse porge un boccale di vino nero a Polifemo, che se ne bea, ne chiede ancora, poi gli chiede il nome e si sente rispondere Nessuno, poi non sente più nulla, inebriato dalla bevanda e dai suoi effetti.

Né greci né romani, comunque, bevevano vino puro, improponibile per i tempi e per le tecniche. Il contenuto di alcool era elevato (20°-25°), la conservazione difficile nonostante la fermentazione fosse interrotta mettendo il mosto nelle anfore. Quel liquido denso e pastoso soggetto a inacidimento era diluito con l’acqua e corretto col miele o con la frutta, poiché gli zuccheri riattivavano la fermentazione, e con altre spezie. Ma c’era chi non era affatto d’accordo. Il poeta Catullo esortava all’acqua di andarsene dove voleva ma non a rovinare il vino puro: il posto dell’acqua era per lui tra gli astemi.

I primi Baccanali in onore del dio erano festività aperte alle sole donne, dove licenze e licenziosità non mancavano, considerato anche che Liber Pater era tanto il nume del vino quanto della fertilità con tutto quanto questo comportava

Stante il divieto per le donne di bere vino, esse dovevano accontentarsi di dulcia (una specie di analcolico) e murrina, fermentato leggero con aggiunta di mirra. Eppure i primi Baccanali in onore del dio erano festività aperte alle sole donne, dove licenze e licenziosità non mancavano, considerato anche che Liber Pater era tanto il nume del vino quanto della fertilità con tutto quanto questo comportava. Sofocle da secoli  aveva eletto l’Italia a terra prediletta da Bacco sia perché la vite vi cresceva spontaneamente, sia perché la coltivazione era diffusa e pregiata. Il Falerno, che doveva godere di almeno dieci anni di invecchiamento, ancora oggi simboleggia un vino inarrivabile e mitico. Il vino non era solo il dono calato dal cielo agli uomini per dimenticare i dolori, come recita un verso di Alceo, e neppure il rimedio ai guai secondo Anacreonte, che quando beve si sente ricco come Creso e padrone del mondo, tant’è che riferendosi a un soldato gli dice che quando sarà caduto trafitto, lui sarà sì ubriaco ma ben vivo. Un tema simile ritroviamo nel poeta persiano Omar Khayyam, che riflette sul fatto che la vita ha come immancabile conclusione la morte e quindi è meglio passarla in ebrezza.

Non solamente la poesia ha celebrato il frutto della vite e i calici della sua trasformazione. Il compositore bon vivant Gioachino Rossini, che raggiunto uno strepitoso successo si dedicò ai piaceri della vita (donne e tavola), dedicava al vino accortezze particolari, sapendone apprezzare sfumature e caratteristiche, tanto da dare per iscritto consigli da autentico esperto enologo e vinificatore al padre, perché per bere il buon vino a suo dire occorreva «spender molti danari, e darsi infinite pene, ed aspettar almeno sei mesi». E quando il barone Rotschild gli inviò dai suoi rinomati vigneti i migliori grappoli, gli rispose che l’uva era eccellente ma il vino in pillole non gli piaceva. L’altro capì l’antifona e stavolta spedì le bottiglie.

Ludwig van Beethoven riteneva la musica il vino che fa sprigionare il momento creativo e definì se stesso come Bacco che pressava il vino glorioso dell’umanità per ubriacarla spiritualmente. Il melodramma italiano sprizza gocce di vino nell’“Otello” e in “Falstaff” di Giuseppe Verdi, oltre al celeberrimo «Libiamo ne’ lieti calici» nella “Traviata”, nell’“Elisir d’amore” di Gaetano Donizetti, in “Cavalleria rusticana” di Pietro Mascagni («Viva il vino spumeggiante»), e persino nel “Don Giovanni” di Wolfgang Amadé Mozart grazie ai versi di Giovanni da Ponte che tesse le lodi del Marzemino («Finch’han del vino»). Il salisburghese è tornato clamorosamente in auge in materia enologica in tempi vicinissimi, quando il solito studio a stelle e strisce avrebbe rivelato che la musica del compositore avrebbe un effetto benefico nella produzione del vino. Non bastava l’incremento nella produzione del latte con la diffusione della sua musica nelle stalle, ecco l’epoca delle vigne. Peraltro proprio in Italia, nella tenuta Paradiso di Frassina, l’intuizione di Carlo Cignozzi portò alla stipula di un protocollo con la facoltà di agraria dell’Università di Firenze per studiare in laboratorio gli effetti delle basse frequenze sulla sensibilità e la neurologia vegetale. I risultati, dopo tre anni: foglie più larghe, spesse e verdi, accelerazione di metabolismo, fotosintesi e scambio di ioni, maturazione precoce, moderata acidità, più zuccheri e polifenoli.

 

In Italia il vino si produce in tutte le regioni, e questo sembrerebbe non accadere in nessuna nazione del mondo, ovviamente lì dove esistono le condizioni per l’impianto della vite. Lo scandalo del vino al metanolo nella seconda metà degli Anni ’80, superato lo choc, ha avuto un impatto positivo sull’intero comparto vitivinicolo e sulla qualità del made in Italy. Sono stati persino recuperati antichi vitigni, accantonati perché quantitativamente poco remunerativi, che negli ultimi venti anni si sono ricavati una ambita nicchia da intenditori, tanto da diventare persino una moda strabusata nella ricorsa all’originalità a tutti i costi.

L’Abruzzo dell’arrembante e sempre più diffuso Montepulciano e del giovanilista Cerasuolo, patria del prestigioso Trebbiano Valentini centellinato ed esclusivo in maniera quasi maniacale, è incappato in due bianchi dal nome antico ma da allusione moderna che hanno dato alla testa ai creativi con non pochi problemi: Pecorino e Passerina. Più sussurrati che esibiti, per ovvi motivi. Altro che ius osculi. Dare pane al pane e vino al vino non è sempre possibile, per celebrare degnamente il nettare che Pablo Neruda in un’ode disegna color del giorno e della notte, con piedi di porpora o sangue di topazio, stellato, liscio come una spada d’oro, morbido come un disordinato velluto; e poi, trasfigurando la donna amata, vede nel fianco la curva colma della coppa, nel petto il grappolo, nella chioma la luce dell’alcool. E l’uomo ricordi sempre, nel bere, la terra e i suoi doveri, e a diffondere il cantico del frutto, perché la bevanda è non soltanto amore, «ma amicizia degli esseri, trasparenza, coro di disciplina, abbondanza di fiori».

L’effimero lo riconduce all’amore, ma sempre come dono, per liberare la fantasia al di sopra delle umane ambasce: Giacomo Leopardi si concesse il piacere del vino sublimando nell’arte quello che la vita e il destino gli negavano. «Bevi il tuo vino con cuore lieto» è l’esortazione biblica contenuta nella Genesi. E allora, Est bibendum non solo nunc, adesso, come esortava Orazio, ma anche semper perché i versi scritti dai bevitori d’acqua, a suo dire, non possono né piacere a lungo né tanto meno vivere. Che vita sarebbe, altrimenti?

In vino veritas.

 

Alfredo:

Libiam libiamo, ne’ lieti calici,

che la bellezza infiora;

e la fuggevol fuggevol’ora

s’inebrii a voluttà.

Libiam ne’ dolci fremiti

che suscita l’amore,

poiché quell’occhio al core

Onnipotente va.

Libiamo, amore; amor fra i calici

più caldi baci avrà.

 

CORO:

Ah! Libiam, amor fra i calici

Più caldi baci avrà.

 

violetta:

Tra voi saprò dividere

il tempo mio giocondo;

tutto è follia follia nel mondo

Ciò che non è piacer.

Godiam, fugace e rapido

è il gaudio dell’amore;

è un fior che nasce e muore,

né più si può goder.

Godiam c’invita c’invita un fervido

accento lusinghier.

 

CORO:

Ah! Godiamo, la tazza e il cantico

la notte abbella e il riso,

in questo in questo paradiso

ne scopra il nuovo dì.

 

violetta:

La vita è nel tripudio...

 

Alfredo:

Quando non s’ami ancora...

 

violetta:

Nol dite a chi l’ignora,

 

Alfredo:

È il mio destin così...

 

CORO:

Ah! Godiamo, la tazza e il cantico

la notte abbella e il riso,

in questo in questo paradiso

ne scopra il nuovo dì.

 

 

Il brindisi, da “la traviata”,

Musica di Giuseppe Verdi,

libretto di Francesco Maria Piave.

 

Vino color del giorno,

vino color della notte,

vino con piedi di porpora

o sangue di topazio,

vino, stellato figlio

della terra, vino, liscio

come una spada d’oro,

morbido come

un disordinato velluto,

vino inchiocciolato

e sospeso,

amoroso, marino,

non sei mai presente in una sola coppa,

in un canto, in un uomo,

sei corale, gregario,

e, quanto meno, scambievole.

A volte ti nutri di ricordi

mortali, sulla tua onda

andiamo di tomba in tomba,

tagliapietre del sepolcro gelato,

e piangiamo

lacrime passeggere,

ma il tuo bel

vestito di primavera

è diverso,

il cuore monta ai rami,

il vento muove il giorno,

nulla rimane

nella tua anima immobile.

Il vino muove la primavera,

cresce come una pianta di allegria,

cadono muri, rocce,

si chiudono gli abissi,

nasce il canto.

Oh, tu, caraffa di vino, nel deserto

con la bella che amo,

disse il vecchio poeta.

Che la brocca di vino

al bacio dell’amore aggiunga il suo bacio

Amor mio, d’improvviso

il tuo fianco

è la curva colma

della coppa

il tuo petto è il grappolo,

la luce dell’alcol la tua chioma,

le uve i tuoi capezzoli,

il tuo ombelico sigillo puro

impresso sul tuo ventre di anfora,

e il tuo amore la cascata

di vino inestinguibile,

la chiarità che cade sui miei sensi,

lo splendore terrestre della vita.

Ma non soltanto amore,

bacio bruciante

e cuore bruciato,

tu sei, vino di vita,

ma amicizia degli esseri,

trasparenza,

coro di disciplina,

abbondanza di fiori.

Amo sulla tavola,

quando si conversa,

la luce di una bottiglia

di intelligente vino.

Lo bevano;

ricordino in ogni

goccia d’oro

o coppa di topazio

o cucchiaio di porpora

che l’autunno lavorò

fino a riempire di vino le anfore,

e impari l’uomo oscuro,

nel cerimoniale del suo lavoro,

e ricordare la terra e i suoi doveri,

a diffondere il cantico del frutto.

 

Pablo neruda,

Ode al vino

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