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28 aprile 2023
di Lidia Lombardi

La via dei tre mari

Roma, via Appia 
Roma, via Appia 
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Un nastro lungo 630 chilometri. Capace di unire l’Italia centrale da Ovest a Sud, e a Est. Di passare dal tramonto al Mezzogiorno e all’alba. Di toccare tre mari, il Tirreno, lo Ionio e l’Adriatico, ça va sans dire, il cuore del Mediterraneo. La via Appia è la strada che salda la civiltà di Roma a quella della Magna Grecia e, ancora, a quella dell’Oriente Ellenico.

Regina Viarum – la chiamò così nel primo secolo dopo Cristo il poeta Stazio – è poco se si considera tutto ciò. Scorrono sulle sue miglia millenni di sapienza, filosofia, matematica, lingue, scultura, architettura, leggi, guerra e pace, agri ubertosi e porti trafficati, Crociati, butteri e pastori, poesia e mito, sbornie nei vigneti e sorsi d’acqua a fonti anelate dopo un cammino solitario tra polvere e sole. Da Roma a Brindisi, passando per Taranto. Toccando quattro regioni (Lazio, Campania, Basilicata, Puglia). Il mare si sente ovunque, anche tra i tratturi dell’Appennino, perché è il mare l’anelito del viaggio lungo il basolato. Imbarcarsi per l’avventura, in cerca di fortuna, siano le terre del Vicino Oriente o le Colonne d’Ercole. Si interrogano gli dei, si issano le vele, forzano le triremi, portano profumi e spezie dalla Via della Seta, carichi di olio e pesche, di pesce e di statue di eroi, come quei due guerrieri di bronzo finiti in fondo al mare di Riace.

La via Appia è la strada che salda la civiltà di Roma a quella della Magna Grecia e, ancora, a quella dell’Oriente Ellenico

Troppo può raccontare l’Appia, sublime e offesa dagli scempi edilizi. Asfaltata e illustrata dai cartelloni pubblicitari dei centri commerciali. Ma poi regala sequenze di sepolcri nella Campagna Romana, di templi, di colonne, archi di trionfo, ponti. Una melodia che affascinò i viaggiatori del Grand Tour ma che da subito suscitò passione e ansie. Perché se la sua storia comincia nel 312 prima di Cristo, allorché il censore Appio Claudio Cieco ne decretò la costruzione per collegare Roma con Capua e permettere alle milizie dell’Urbs un rapido collegamento con i campi di battaglia durante le guerre Sannitiche, il suo sviluppo va oltre i combattimenti.

L’arteria più apprezzata man mano che si allunga diviene sinonimo di relazioni, commerci. Dopo Capua raggiunge Benevento, poi Venosa, infine Brindisi. Scavalcando e vivificando terre ostili, aride o paludose. Un miracolo che già Plinio percepiva: l’Appia, scrisse, con il tappeto di grandi basoli, superava “quella palude fastidiosa come un vero prodigio, come se per sostenere il peso di quelle pietre enormi un altro Ercole avesse fatto emergere dall’acqua quel grande e solido terrapieno”.

Le stazioni di sosta (mansiones) per rifocillare cavalli e cavalieri diventano vividi segnali di tappa, posti come sono ogni dieci miglia. E ad ogni giorno di viaggio gli alloggi notturni per il cambio delle cavalcature (mutationes) creano le condizioni per addensamenti antropici che nutrono i ritrovamenti archeologici.

Il Novecento ne rafforza la funzione di collegamento. Tre bonifiche strappano terreno buono da coltivare nella Pianura Pontina, nell’Agro di Falerno, nel Tavoliere delle Puglie. La Seconda Guerra Mondiale raggela il dinamismo economico: i campi arati e seminati diventano spianate per la battaglia, i ponti vengono minati e distrutti. Ma adesso chi la attraversa a piedi – il percorso da Roma a Brindisi fu effettuato nel 2015 da Paolo Rumiz, che ne trasse un diario entusiasmante, e recentemente da Giulio Ielardi, che ha fissato con la macchina fotografica centinaia di anticonvenzionali scorci – nel passaggio dal Tirreno all’Adriatico può osservare una vastissima gamma di variazioni ambientali, etniche, paesistiche.

E il cammino, suggerisce Simone Quilici (che dirige il Parco Archeologico dell’Appia Antica e segue il progetto di un recupero di tutti e 630 i chilometri, anche là dove l’itinerario si perde sotto i sentieri, nei campi, seppellito dall’asfalto e dal cemento) ha il valore di un avvicinamento progressivo alla cultura mediterranea.

Il Novecento ne rafforza la funzione di collegamento. Tre bonifiche strappano terreno buono da coltivare nella Pianura Pontina, nell’Agro di Falerno, nel Tavoliere delle Puglie

Allora scattiamo anche noi delle istantanee lungo questa marcia verso le fonti identitarie del Mare Nostrum, che poi costituiscono i pilastri della civiltà occidentale. I sublimi passi iniziali sono universalmente noti: la Tomba di Cecilia Metella, le ville di Massenzio, di Capo di Bove, quella dei Quintili con la chiesa di Santa Maria Nova, mentre in parallelo, sull’Appia Nuova, resistono possenti le arcate degli acquedotti. Invece, vogliamo soffermarci sugli snodi meno noti, ma quanto carichi di senso.

Ecco, al XXXIII miglio, in località Piscina di Zaino, nella pianura pontina, le Tres Tabernae, proprio sul bivio dell’Appia con la strada che conduce a Ninfa – l’oasi-giardino tra le rovine – e a Norba, arroccata con la cinta di mura sui monti Lepini. A cinquanta chilometri da Roma, era la prima “mutatio”.  Da ovest doveva provenire la via di collegamento con il mare di Anzio. Dicono gli Atti degli Apostoli che si incontrarono qui un manipolo di cristiani partiti da Roma e Paolo di Tarso, in “missione” verso la Caput Mundi per diffondere dall’Oriente all’Occidente la religione di Gesù, non sottraendosi alla decapitazione inflittagli da Nerone.

A Terracina la Regina Viarum impatta nel pieno centro. A piazza del Municipio e al Foro Emiliano, costeggiato da un lato proprio dal basolato dell’Appia, che costituisce ancora l’assetto generatore della città. Qui il mare si tocca, ma la vastità dell’azzurro impedisce di distogliere lo sguardo dall’alto del tempio di Giove Anxur, che domina la piana di Fondi e l’arco della costa, laggiù, nel digradare dei terrazzamenti e dei pini marittimi. Il porto è vivace però lo supera in movimento di merci quello di Minturno, dove il decumano massimo coincide con l’Appia. La città è insieme scalo marittimo e fluviale, perché le sue spiagge, distese nel Golfo di Gaeta, arrivano alla foce del Garigliano.

E allora, sulla “rotta” dell’Appia entrano in scena i ponti: tre sono quelli appunto sul Garigliano, da quello ottocentesco voluto da Ferdinando II di Borbone a quello del 1927 e all’ultimo, realizzato negli anni Novanta. Chilometri più avanti, a Benevento, il Ponte Leproso, del III secolo avanti Cristo, a schiena d’asino e ora percorribile solo a piedi, mantiene un pilone originario, con le pietre assemblate in opus quadratum e le bugne rustiche. L’Appia ora s’avventura nel cuore dell’Appennino, l’Irpinia, e piega verso la Basilicata.

L’Appia ora s’avventura nel cuore dell’Appennino, l’Irpinia, e piega verso la Basilicata

Tocca la città natale di Orazio, Venosa, sull’altopiano del Potentino, poi arriva al confine con la Puglia, scavalcando il fiume Ofanto. S’avvia la discesa verso lo Ionio, incontrando masserie e gravine. A Massafra ce n’è una intitolata alla Madonna della Scala: intorno all’anno Mille vi teneva banco il mago Greguro, guaritore magnetico, grazie alla raccolta delle  erbe che germogliano a decine nell’habitat protetto della profonda fenditura. Taranto – al netto dell’inquietante mole dell’Ilva – gioca con le trasparenze del Mar Piccolo e del Mar Grande, dove si mischiano acqua dolce e acqua salata, che regalano un gusto delicato alle tenere cozze qui coltivate. Il Ponte Girevole si apre per il passaggio delle grandi navi della Marina Militare, le due massicce colonne del Tempio Dorico Arcaico inquadrano una striscia di mare.

A Brindisi un’altra colonna, questa snella come una lancia puntata verso il cielo, segna la fine della via Appia. Gioca a nascondino con i vicoli intorno al Duomo, ma se la tocchi ti sembra di sfiorare i flutti dell’Adriatico che le scorre davanti, oltre il porto. I traghetti salpano per Corfù, Patrasso, Cefalonia, Zante, Igoumenitsa. E per Valona, in Albania. Il Mediterraneo spalanca le braccia.

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