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27 maggio 2023

"Trimani" o te ne vai?

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“Trimani o te ne vai?”. Quella frase, confessa Giovanni Trimani, l’outsider della famiglia di vinai più antica di Roma, un 40enne robusto, dal barbone folto e dall’aria candida, “mi perseguita fin da ragazzo, gli amici mi prendevano in giro per questo mio nome: tre mani, oppure la sera nei posti che frequentavo allora, mi ripetevano per gioco: ma Trimani o te ne vai? Per anni me lo sono sentito dire, al punto che l’ho raccontato alla mia gallerista, Velia Littera della Galleria Pavart, la quale si è messa a ridere e così abbiamo scelto di titolarci la mia ultima mostra”.

“Trimani o te ne vai? Quella frase mi perseguita fin da ragazzo, gli amici mi prendevano in giro per questo mio nome: tre mani, oppure la sera nei posti che frequentavo allora, mi ripetevano per gioco: ma Trimani o te ne vai? Per anni me lo sono sentito dire, al punto che l’ho raccontato alla mia gallerista, Velia Littera della Galleria Pavart, la quale si è messa a ridere e così abbiamo scelto di titolarci la mia ultima mostra”.

Giovanni, a differenza dei fratelli Paolo, Francesco e Carla, che guidano l’impresa di famiglia, ha scelto un’altra strada, fa l’artista. “Siamo in ottimi rapporti, ma facciamo lavori diversi” spiega. ‘Trimani o te ne vai’, gli dico mi sembra comunque un’ottima trovata di marketing, non da meno di quel “We wine better”, che è diventato il motto di famiglia e che peraltro è un’invenzione dello stesso Giovanni Trimani.

Provo così a punzecchiarlo, per farlo parlare dell'azienda, dei fratelli, ma è tempo perso, Giovanni su questo fronte è poco loquace. “Il vino mi piace, lo bevo volentieri – fa – anche se, potendo scegliere, forse preferisco la birra”. A questo punto rinuncio a chiedergli di parlarmi della ditta e per avere notizie sulla storia della famiglia mi rivolgo ad altre fonti. 

D’altra parte la storia dei Trimani non è certo un segreto: vendono vino a Roma da circa 200 anni. Sono una dinastia del vino, dei 're' del vino, un marchio di successo che 'Wine Enthusiast', la rivista di vini più letta negli Stati Uniti, l'anno scorso ha inserito tra le 10 enoteche più iconiche, sarebbe a dire più rappresentative, del mondo.

Arrivano nella città dei Papi nel 1821 dall'Abruzzo, e aprono un buchetto, una fiaschetteria di vini e oli in via di Panico, vicino a via dei Coronari, poi, dopo il 1870, escono dalla cinta muraria papalina e si trasferiscono nella zona di Porta Salaria, l'attuale via Piave, nell’area urbana che si espande verso Esquilino e l'attuale Stazione Termini, dove cresce la Roma piemontese. Seguendo il percorso della prima tramvia romana, i Trimani approdano in via Goito, vicino Porta Pia, dove il bisnonno Marco, nel 1914, subito prima della Grande Guerra, compra, al civico numero 20, il palazzo dove insedierà la casa di famiglia e una grande mescita di un centinaio di metri quadrati, con sotto una cantina enorme, che praticamente è l’ossatura del negozio Trimani come è ancora oggi, anche se dentro ora è ovviamente molto cambiato, pur conservando il vecchio bancone e la fontana in marmo di Carrara dove si conservava in fresco il vino, che fino alla metà degli anni Ottanta si vendeva ancora sfuso.

Erano anni duri. “Il mio bisnonno – racconta Paolo, poco più che 60enne, espertissimo di vini, che ora è al timone dell'azienda e che è un po’ l’archivio di famiglia - morirà a 50 anni (probabilmente di spagnola, l’antenato del Covid, ndr) proprio durante la grande guerra, senza rivedere i suoi figli, mio nonno Paolo e mio zio Francesco, uno dei ‘ragazzi del Novantanove’, partiti per il fronte”.

Da allora ne è passata di acqua, anzi di vino, sotto i ponti. Il nonno Paolo, è un tipo burbero ma con lui la vineria si trasforma in enoteca, si passa dagli orci di terracotta alle bottiglie di vino, si stampano i primi listini dei prezzi, in cui sono elencati anche vermouth, brandy e negli anni ’30 whisky, champagne, cognac, illustrati nei cataloghi dal pittore Maccari: dei piccoli capolavori di grafica. Tra i suoi clienti storici l’azienda acquisisce il Quirinale e cioè il Re, la corte e poi la presidenza della Repubblica. La nuova ‘svolta’ arriva a partire dagli anni Settanta, quando il titolare diventa Marco, il figlio di Paolo senior.

"Mio padre - ricorda Paolo jr. - ha ereditato un negozio che ormai ha una certa fama". Inoltre "era amico di tanti artisti: Maccari, Tito Balestra, Paolo Premoli. Venivano a cena, s’intrattenevano in interminabili discussioni e bevute. E di Maccari ricordo la bellissima etichetta con le tre mani sulla bottiglia e tanti disegni fatti magari dietro gli scontrini della vineria. Poi alla morte di Paolo Gabrielli, ‘il vinaio dei nobili’ grande amico di papà, rilevammo negli anni Settanta uno straordinario magazzino dentro il Quirinale in un angolo chiamato lo Sperone. Per me da ragazzino era come il tesoro di Ali Babà pieno di preziose etichette di Bordeaux imballate".

Quando sono nato lui aveva 40 anni, per cui diventato io ventenne lui era un sessantenne. Eravamo di due generazioni diverse. Non approvava tutte le mie scelte ma mi seguiva. E io fin da bambino volevo fare l'artista, una passione che probabilmente ho ereditato proprio da lui, che era un grande collezionista, magari un po' disordinato ma appassionato

Anche Giovanni ricorda bene il padre: "Quando sono nato lui aveva 40 anni, per cui diventato io ventenne lui era un sessantenne. Eravamo di due generazioni diverse. Non approvava tutte le mie scelte ma mi seguiva. E io fin da bambino volevo fare l'artista, una passione che probabilmente ho ereditato proprio da lui, che era un grande collezionista, magari un po' disordinato ma appassionato. In casa si respirava molta arte. C'erano Maccari, Vangelli, Gismondi, lui conosceva Manzù, Fausto Melotti”.  Marco dirige l’azienda a lungo ma già dalla fine degli anni Ottanta entrano in campo giovanissimi i quattro fratelli, tra cui anche Giovanni, che vive nel palazzo di via Goito, dove ha un grande studio, pieno di colori, di tele e dove tiene il laboratorio che usa per saldare il ferro, una sua grande passione. "Ho collaborato per 20 anni con l'azienda, poi ho deciso di fare tutt'altro e, a partire dal 2007, ho scelto i pennelli e di fare l’artista di professione. Anche se, devo dire, in famiglia siamo tutti dei creativi. Anche il vino, la cucina è arte".

Nel 1991 al negozio dei vini, è affiancato un nuovo locale denominato Trimani II, il primo locale italiano a chiamarsi Wine Bar, che cura Carla, insieme al ristorante di via Cernaia, all’angolo con via Goito. "Invece dei soliti Galestro e Greco di Tufo - è sempre Paolo che parla - imponemmo vini nuovi, curiosi, di piccole aziende”. Ora nel grande negozio sugli scaffali c'è un assortimento di vini da far girare la testa, metri e metri di ripiani in cui sono esposte le migliori etichette italiane ed estere. La selezione è impressionante, circa 6.000 bottiglie provenienti da tutto il mondo, con un prezioso lavoro svolto in particolare sulle cantine laziali. Paolo è l'intenditore, viaggia spesso in Francia, per tenersi aggiornato, dove, racconta, “t’insegnano che porta fortuna orinare sulla vigna nuova prima della vendemmia”.

E poi va alle fiere, come Vinitaly, o a quella più di nicchia di Merano, che predilige, mentre Carla, cuoca raffinata, è diventata un po’ l'oste di famiglia. "Oggi la produzione è molto cambiata - spiega - Negli anni ‘90 i produttori erano pochi e la stampa di settore era appena una nicchia. Ora il vino è molto più importante non solo per i consumatori ma anche a livello economico. Clienti curiosi di scoprire e riscoprire ce ne sono molti. Il vino è il prodotto più nobile della terra, attraversa il tempo e lo spazio e racchiude tradizioni e storie".

E Giovanni? In fondo è stato lui il primo dei Trimani a incuriosirmi, con la piccola installazione che ha lasciato in una viuzza di Monteverde, in mezzo alla strada, davanti al posto dove ha tenuto la sua ultima mostra. Quasi non la noti passando, nascosta com’è dalle macchine parcheggiate. Si tratta di un piccolo Pinocchio di legno, che se ne sta ai piedi di una scala a chiocciola di ferro, saldata al tronco di un albero tagliato.

Ho avuto l’idea di metterci un Pinocchio, perchè è un burattino che nasce da un albero e perché Pinocchio è l’emblema delle bugie. E io penso che siamo tutti dei bugiardi, soprattutto quando dobbiamo imboccare una strada nuova, sconosciuta

Sotto la statuetta c’è un cartello, con su scritto: “Anche il viaggio più lungo inizia con un primo passo”, una frasetta semplice, che mi ricorda i bigliettini che trovi nel Baci Perugina quando li scarti. Chiedo a Giovanni di spiegarmi l’opera e lui non si tira indietro, improvvisamente diventa loquace: “Proprio davanti all’ingresso della mostra c’era un alberello tagliato di netto e così ho avuto l’idea di metterci un Pinocchio, perchè è un burattino che nasce da un albero e perché Pinocchio è l’emblema delle bugie. E io penso che siamo tutti dei bugiardi, soprattutto quando dobbiamo imboccare una strada nuova, sconosciuta. La vita ci porta sempre a un bivio che ti può cambiare la vita. Per questo ci ho messo una scala a spirale che non si sa dove va… Alla fine, in questi casi, siamo tutti dei Pinocchio e ci diciamo un sacco di bugie. Io per esempio mi dico che sono bello, affascinante e simpatico. Bugie che mi servono per andare avanti e per far finta che va tutto bene…o che andrà tutto bene. Guai se in questi casi non ci raccontassimo delle bugie! A volte la bugia serve più della verità, diventa un modus operandi”.

E la mostra? Giovanni prende il catalogo, lo sfoglia, mi spiega che il suo stile è espressionista e che in molti suoi lavori lui lega i colori con dei segni neri che danno risalto al modellato, un po’ come avviene per le vetrate gotiche. E poi mi indica il soggetto da lui più rappresentato negli ultimi anni: “La sedia, con il progetto AssediA”. “Tutto nasce da una poesia del 2016 che ho scritto sulla sedia e dalle riflessioni che inizio a fare su questo oggetto – spiega – Poi ho cominciato a fare dei ritratti delle sedie, in cui ogni sedia racconta una storia. Secondo me la scelta di una sedia diventa una sorta di scelta d’identità. Mi affascina la parola inglese chairman, che letteralmente vuol dire uomo-sedia, ma che in realtà significa presidente, colui che a capo di sé stesso. Si parte dalle sedie e si finisce per ricercare sè stessi, oppure qualcuno che non c’è più, quel posto vuoto. Io per esempio quando torno a casa, da mia madre, mi siedo sempre sulla sedia dove stavo da piccolo, voglio stare là. Quella è la mia sedia, era il mio posto tanti anni e fa e dunque, in un certo senso, sono io”.

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