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27 aprile 2023
di Rita Lofano

Balla che ti passa

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La Taranta è popolare. Si fanno le notti. E in verità così si disfano con gioia i giorni (per recuperare le notti). Rito catartico, dicono gli intellettuali e chi può opporsi? Al massimo il Checco (Zalone) nazionale, uno che ha capito tutto del nostro tempo dove “non si può dire niente” (e lui dice tutto).

Qui per fortuna siamo solo cronisti, dunque stendo un po’ di note avanti e indietro, con il mio pendolarismo da pugliese in Texas, andata e ritorno tra Roma e Houston e poi... eccoci, nella notte della Taranta. Si celebra d’estate, in Puglia, unisce popoli e generazioni nelle piazze, allevia i turbamenti dell’anima e sconquassa il tempo del Sa(lento). All’origine di questa tradizione, che da secoli affascina gli studiosi, ci sarebbe il morso di un ragno (la tarantola) che provocava dolori, deliri, isteria, e che spingeva chi era stato pizzicato (di solito giovani donne) a dimenarsi a tempo, a cercare la guarigione attraverso la musica, per neutralizzare gli effetti del veleno, saltando e sudando. Alcuni fanno risalire il tarantismo alle menadi greche (donne invasate da Dioniso, il dio della forza vitale), altri al mito di Aracne (la tessitrice talmente abile da fare invidia ad Atena che per questo la trasforma in ragno). Leggende, il risultato è che si balla.

Alcuni fanno risalire il tarantismo alle menadi greche (donne invasate da Dioniso, il dio della forza vitale), altri al mito di Aracne (la tessitrice talmente abile da fare invidia ad Atena che per questo la trasforma in ragno). Leggende, il risultato è che si balla

Cose dotte se ne dicono tante, perché lo sfrenato va ancorato saldamente, affinché non decolli troppo liberamente. “Coloro che sono morsi dalla tarantula traggono massimo diletto da questa o quella musica”, si legge nel Sertum papale de Venenis, redatto nel 1362, probabilmente il più antico documento sul tarantismo. Finita la lettura, resta quello che suona. E si balla. Senza troppi giri di parole. Ma bisogna continuare a far mostra di cultura, altrimenti si stona, dunque mi corre l’obbligo di scrivere che perfino Leonardo da Vinci parla della “tarantola” nel “Bestiario”, databile intorno al 1496 (“Il morso della taranta mantiene l’uomo nel suo proponimento, cioè quello che pensava quando fu morso”), segnalando come nell’anniversario del pizzico, la “vittima” è come se venisse ri-morsa, tarantolata. Cosa dolorosa, senza dubbio alcuno, ma alla fine non risolutiva per quanto accade in piazza (e in casa), il fatto che si balla senza sosta, a sfinimento. Un po’ come scrivere senza sapere esattamente a che riga e come si chiuderà l’articolo, praticamente una specie di incubo letterario, dove sei all’opera davanti alla macchina da scrivere e come diceva Hemingway stai sudando sangue. Essendo Hemingway unico, il ripetersi è impossibile, sia per il fatto fisico sia per quello narrativo.

Epperò proprio nella ripetizione sta un po’ il cuore del rito che fa vivere il mito, alimentato forse dalla saggezza femminile (dicono, perché siamo sinceri, se fosse pazzia sarebbe in fondo più divertente) come espediente, come uno sfogo liberatorio rispetto all’oppressione, ai condizionamenti di una società rigidamente patriarcale, una via d’uscita alla follia che “notoriamente” è donna. E anche qui siamo al sociologicamente corretto e alla storia come deve essere letta, ma per licenza poetica potremmo immaginare che invece la taranta sia nata come ballo da dominazione amazzone, da Regno delle Signore (vi ricordo che ci fu un tempo in cui comandavano le badesse, qui in Puglia) e in casa certamente non hanno mai comandato gli uomini.

La storia, certo, bisogna fare il passaggio in pagina, ci mancherebbe. Dunque negli anni Sessanta il tarantismo era ancora diffuso nel Salento, legato alla figura di San Paolo (che uscì indenne dal morso di una vipera) con la festa della guarigione fissata al 29 giugno, giorno del santo. Messi a posto i santi, chiesto il favore divino, c’è il tributo alla grande arte, ecco allora il bagliore del primo documento filmato (“La taranta”) del regista Gianfranco Mingozzi, girato nel 1961 a Galatina, con la consulenza del massimo esperto in materia, l’antropologo Ernesto De Martino. E così pure la questione da scuola di studi da prefisso in etno- e anche antro- è risolta.

E il volo letterario, scusa? Dove l’hai dimenticato? Ah, la domanda dell’amica che gira vorticosamente e tra poco cade con le vertigini, tarantolata, tiè. “Questa è la terra di Puglia e del Salento, spaccata dal sole e dalla solitudine, dove l’uomo cammina sui lentischi e sulla creta. Avara è l’acqua a scendere anche dal cielo, gli animali battono con gli zoccoli un tempo che ha invisibili mutamenti. I colori sono bianchi, neri, ruggine. È terra di veleni animali e vegetali: qui esce nella calura il ragno della follia e dell’assenza, si insinua nel sangue di corpi delicati che conoscono solo il lavoro arido della terra, distruttore della minima pace del giorno”. È un frammento del commento di Salvatore Quasimodo, voce e contrappunto del documentario, sempre quello del Mingozzi. Confessiamolo, dalla penna di Truman Capote sarebbero uscite non cose liriche e gravide di retorica, ma una cascata di scintillante allegria e trasporto, un bel “senza fine” senza tutta questa sofferenza, ne abbiamo abbastanza, fateci divertire.

Il miracolo si rinnova ogni anno, nell’estate salentina si balla, con i capelli sciolti e le ampie gonne, dove non si canta solo l’amore ma si denunciano abusi e sfruttamento (delle donne). Maestra concertatrice della 26esima edizione de “La Notte della Taranta” (a Melpignano lo scorso anno hanno danzato in 200.000) sarà Fiorella Mannoia che nel 2016 (quando a dirigere era un’altra donna, Carmen Consoli) interpretò due brani della tradizione salentina: “La Cardilleddha”, in cui si critica la pratica di crescere le ragazze in età da marito in una gabbia dorata, e “Lu Zinzale”, una rumba metafora di un matrimonio in un ambiente povero. Che si apra il sipario dell’allegria, vi prego, non disperate, la festa sta per arrivare, tarantolatevi.

Sia benedettu ci fice lu munnu

Comu lu seppe bello a situare.

Fice la notte, poi fice lu giurnu

E po la fattu criscere e mancare,

fice lu mare tantu cupu e funnu

ogni vascello pozza navigare.

Fice lu sule e poi fice la luna

Poi fice l’occhi de la mia patrona.

Fice lu sole e poi fice ’na stella

Poi fice l’occhi toi cara mia bella.

Canzone tradizionale salentina

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