Ho sognato di fare un viaggio in un mondo lontanissimo e vicinissimo, prossimo e remoto. Dove c’era una volta un regno che non aveva bisogno di eserciti, un dominio comandato da donne misteriose e potenti in una cittadina nel cuore della Puglia. È una storia lunga cinque secoli, e ve la voglio raccontare. È il racconto delle badesse mitrate, donne che obbedivano solo al Papa.
Il racconto delle badesse mitrate, donne che obbedivano solo al Papa
Questa storia la contemplo fin dall’infanzia, guardando un antico campanile dal balcone della mia casa. Siamo a Conversano, in provincia di Bari, e il campanile, non a caso il più alto della città, è quello del monastero di San Benedetto. Il convento esisteva già nell’anno 889, acquisì grandi ricchezze (il primo conte di Conversano, Goffredo Altavilla, nel 1098 donò i diritti feudali sul vicino villaggio di Castellana), prosperò e nel 1110 passò sotto la diretta giurisdizione della Santa Sede.
Il punto di svolta della storia arriva nel 1266: a Brindisi sbarca una comunità di monache di clausura, profughe dalla Romania e dalla Grecia, sono guidate da una badessa di origini francesi, Dametta. Poiché il monastero di San Benedetto era stato abbandonato dai monaci (tutta un’altra storia, di invasioni e di sconfitte), il convento fu affidato alle suore cistercensi, con tutti i privilegi e i possedimenti accumulati fino a quel momento. E che momento, nella gerarchia della Chiesa le badesse di San Benedetto contavano più dei vescovi, reggevano la mitra dorata e il pastorale d’argento, simboli del potere, amministravano il ricco ed esteso feudo di Castellana, sedevano su un trono e tutto il clero sotto la loro giurisdizione doveva rispettare il rito del “baciamani” al loro cospetto, anche da morte.
Potenti. Riverite. Serve solo del Signore. La prima badessa mitrata di Conversano fu dunque Dametta. “Non sappiamo quale fosse il suo cognome – spiega lo storico Antonio Fanizzi che ci accompagna in questo viaggio – è tutto quello che risulta dai documenti autentici e non dalle leggende. Le benedettine cistercensi sono un ordine istituito a Citeaux, in Francia. Dametta proveniva dal monastero Santa Maria de Viridario di Methoni. Le fu concesso il monastero di San Benedetto con tutti i diritti di cui godevano l’abate e i monaci per ordine di Papa Clemente IV. Nasce così la giurisdizione badessale che durerà fino al 1810, tanto invisa ai vescovi della diocesi locale da essere stata definita “Monstrum Apuliae”.
Le badesse venivano elette dalle consorelle ogni 3 anni. Il Concilio di Trento stabilì che i monasteri che godevano di questo genere di giurisdizione potevano continuare a esercitarla se avessero avuto i documenti di fondazione. Le badesse furono molto attente a conservare tutte le carte necessarie e per questo riuscirono a restare al potere così a lungo. Erano nobildonne condannate alla clausura, fin da bambine, costrette a comunicare con il mondo esterno solo attraverso delle grate dalle maglie strette al punto da non lasciare passare neppure una mano.
Erano nobildonne condannate alla clausura, fin da bambine, costrette a comunicare con il mondo esterno solo attraverso delle grate dalle maglie strette al punto da non lasciare passare neppure una mano
I primogeniti delle famiglie feudali ereditavano la terra, gli altri potevano prendere le armi o i voti, mentre le femmine erano costrette a matrimoni d’interesse o al convento. A Conversano e nei paesi vicini i nobili ambivano a vantare una badessa in famiglia ed erano pronti a sborsare una cospicua dote: seicento ducati.
“Verso la metà del Seicento, il primogenito di Giangirolamo II e di Isabella Filomarino, Cosimo Acquaviva d’Aragona che aveva sposato Maria di Capua, ebbe dieci figli, cinque maschi e cinque femmine”, racconta Fanizzi. “Le figlie furono tutte monache di San Benedetto. Una di loro, la più giovane, Vita Modesta (a Polignano viene venerato San Vito, con i suoi precettori, San Modesto e Santa Crescenza, da qui il nome da suora) scappò da San Benedetto con il fidanzato Ridolfo Carofa, il fratello del Duca di Noja (rivale degli Acquaviva d’Aragona), facendo un buco nella bottega del falegname adiacente al convento. Si imbarcarono da San Vito diretti a Venezia dove si sposarono”.
Ma la storia non è a lieto fine. Lui morì in battaglia e lei tornò a Conversano con il figlioletto. La leggenda vuole che sia stata lei, al secolo Dorotea Acquaviva d’Aragona, ad aver ispirato il disegno sulla “porta dei 100 occhi”, conservata nella pinacoteca di Conversano e chiamata così perché raffigura una giovane donna con in mano un lungo coltello insanguinato e il vello di un animale ucciso, completamente ricoperta da occhi aperti e tutti uguali. Sarebbe stata la porta della cella nella quale era stata rinchiusa per punizione, per aver inseguito i desideri carnali, simboleggiati dal toro posto all’esterno della porta.
Leggenda, storia, mito. Sarebbe bello avere la macchina del tempo, tornare indietro, scrutare, imparare l’arte del comando, qui a Conversano, nella “città delle donne”.
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