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20 luglio 2023
di Stefano Rissetto 

Ambasciatrice di bellezza

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Ecco perché Fellini. Dal ponte volo della nave rifornitore “Vulcano”, rimodulato a privilegiata tribuna disposta a nord al largo del porto di Genova, nel vedere dalle alture del Righi incombere la pattuglia acrobatica, prima un refuso della vista poi sempre più vicina ed eccola quasi sulla verticale del saluto, ho ripensato al mezzo mattino, quando all’arrivo ai Magazzini del Cotone, davanti al palco autorità, il complesso bandistico della Marina Militare, uomini in frack blunotte compunti e assorti, aveva eseguito la marcia di “8 e 1/2” di Nino Rota, seguita da due brani di Piero Piccioni, classici della cinematografia di Alberto Sordi: il “Rugido do Leao” e la “Marcia di Esculapio”. Sembrava un modo scanzonato di desolennizzare quel che andava ad accadere, erano invece i liberi vocalizzi di un’orchestra chiamata a officiare una cerimonia degli addii.

Difatti tra i familiari degli allievi qualcuno aveva gli occhi lucidi. Poi sullo schermo abbiamo visto il direttore del complesso suonare il pianoforte del veliero, naturalmente il Morricone del “Pianista sull’Oceano”. Piccoli grandi maestri, contraffattori usi a raccontare verità tremende, su di noi, proprio su di noi, con lessico lieve e talvolta un accenno di sberleffo. 

Stavolta, la partenza della nave scuola “Amerigo Vespucci”, così vicina da non sembrare vera, era diversa da un viaggio di formazione: era l’avvio di un giro del mondo di due anni, 40mila miglia marine, 31 porti di 28 nazioni. A raccontare dappertutto che cosa fosse, che cosa sia e voglia essere l’Italia. Forse la nostalgia dell’avvenire, appunto. E così sono andato lì, col cartellino stampa al collo, per la mia Telenord, una giornata o quasi in mare, a bordo di una nave militare senza il coraggio di indossare il cappellino della Marina avuto in dono, ore e ore per raccontare un attimo sotto le martellate da fabbro del sole di luglio. 

E l’attimo è stato appunto quando le Frecce Tricolori hanno squarciato il cielo azzurrissimo, tra l’anfiteatro della città e l’alto Tirreno, un taglio come quelli di Fontana, un passaggio di rondini come quelli che vedremo alla fine dell’estate, chilometri e chilometri di bandiera italiana sventolati nell’aria, destinati a dissolversi nel ricordo come ogni cosa, una carezza al ferrame e alle alberature di quel meraviglioso vascello, un castello incantato costruito sull’acqua, che ha meno di cent’anni ma sembra venire da molto più lontano. Pochi secondi ma dal peso specifico dilaniante, la perfezione di quel gesto leggero e faticoso, i piccoli Aermacchi azzurri con la striatura tricolore disposti more geometrico, come gli uccelli simmetrici di Escher nella xilografia “Giorno e notte”, un ciao marziale e confidente ai naviganti. 

La Vespucci e le Frecce sono il sunto di una storia che parla di tutti noi, che quindi ci riguarda

Ecco perché Fellini. Perché la Vespucci e le Frecce sono il sunto di una storia che parla di tutti noi, che quindi ci riguarda. Forse quei vocalizzi degli orchestrali, scritti da un maestro milanese che avrebbe voluto imporsi come sinfonista, a contrappunto dell’opera di un genio che dubita di se stesso, erano un indizio, una traccia, un abracadabra. E avrei voluto fermare quell’istante di pura bellezza, ma poi le Frecce hanno ceduto la scena a un altro numero  di acrobazie, stavolta di velivoli militari a tutto effetto, grigi come gli squali e come squali mordaci, intimidatori nel rombo pesante, lievi nell’incedere. Era davvero un circo volante, e non sembri diminuzione od oltraggio: così Daniele Del Giudice, rielaborando i ricordi di Martino Aichner nel racconto “Pauci sed semper immites”, aveva definito il Gruppo Buscaglia, i “quattro gatti” capaci di andare oltre i limiti della tecnologia a disposizione, a mettere sotto scacco la Royal Air Force. 

La Vespucci sembrava attendere che le tracce tricolori finissero di svanire, per intraprendere la sua navigazione. E nel ritroso dell’evocazione ho visto laggiù in fondo davanti a me piazza Raffaele Rossetti, disegnata ad angoli e spigoli dal genio di Daneri, dedicata all’uomo che oltre un secolo fa a Pola aveva minato e affondato la Viribus Unitis ammiraglia austroungarica, fischio finale della Grande Guerra, nel febbraio precedente la Szent Istvan era già stata mandata agli abissi a Premuda. E più in là, dietro la spiaggia di Vernazzola, la casa dell’altro incursore che ad Alessandria d’Egitto, a cavallo di un siluro con l’elica, aveva fatto saltare la Valiant, a lui - Luigi Durand de la Penne, decorato dopo la guerra dai britannici - è intitolata proprio la calata da dove, a cerimonia finita, ci avevano imbarcato sulle pilotine per raggiungere la “Vulcano”. 

Ecco perché Fellini. Perché è stato un istante: nella sua immaginazione il passaggio del Rex, genitore dell’Andrea Doria e dei Conti Rosso e Verde e della Michelangelo e Raffaello, adesso i monoposto che scrivono traiettorie impercettibili, codici di geometria esistenziale nell’immenso, sulla verticale della nave più bella del mondo. 

La Vespucci sembrava attendere che le tracce tricolori finissero di svanire, per intraprendere la sua navigazione

Lo spettacolo era finito. Ma il sipario restava aperto sull’orizzonte, verso il quale ormai la Vespucci si allontanava, un puntolino sempre più piccolo. Diretto verso le azzurre lontananze dei continenti, anche in quell’Argentina dove ci sono trenta milioni di italiani, tra cui anche i discendenti dei fratelli di mio bisnonno, non so quanti fossero ma seppi dai miei vecchi che solo lui era rimasto qui, per amore di una ragazza, e quindi io ho solo il passaporto italiano.

E gli ingranaggi della sera erano ancora lungi da avviarsi, invece la “Vulcano” ci lasciava il ponte volo aperto al blu e al celeste, verso la rotta della Vespucci ormai perduta alla vista, lontana come il tempo in cui aveva una gemella, la Cristoforo Colombo, ceduta ai sovietici come riparazione di guerra, ridipinta di grigio nel segno del lungo inferno russo, lasciata invecchiare a Odessa e infine demolita. Si va per mare anche per cercare se stessi, anche se non ci si troverà mai, come le due navi divise dalla storia. 

Era ancora alto il pomeriggio, quando ci hanno avviato alle scialuppe di sbarco. Da un oblò, dondolato dal rollio del guscio di vetroresina, osservavo ancora una volta la Vulcano, sempre più piccina anche lei, pronta a ripartire per Civitavecchia. E conservavo la sensazione di non aver vissuto quel che davvero avevo vissuto. Perché quando passa la Bellezza si ha sempre l’idea che ci sia dietro un incantesimo, un disguido del possibile. 

 

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