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12 gennaio 2023
di Lidia Lombardi

Res Publica, patrizia e popolare

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Esci sulla Terrazza Caffarelli e il sole adamantino di Roma ti squaderna sopra l’azzurro e sotto - prima della “danza” di cupole barocche - quella vallata del Foro Boario dove a un cespuglio del paludoso Tevere s’incagliò la cesta di Romolo e Remo, fatali gemelli prima di diventare fratelli coltelli. E allora è come se si ricomponessero le tessere di quanto appena visto all’interno, nel blu ovattato dell’omonimo edificio capitolino: perché è appunto Palazzo Caffarelli a ospitare, fino al 24 settembre, la mostra che racconta cinque secoli dell’Urbs, quelli meno glamour e meno inflazionati, arcigni e rigorosi ancorché crogiolo delle leggi, della letteratura, della esemplare Forma-Stato che fu la Repubblica di Roma. 

Insomma, i secoli dei Consoli e del Pontifex  Maximus, di Muzio Scevola e Orazio Coclite, delle guerre contro etruschi e latini, dell’alleanza e poi della rottura con i Sabini, dei patrizi contro la plebe, di Cicerone, Catullo e Lucrezio;  di Bruto, Pompeo  e Cassio, di Cleopatra e Antonio. Fino al dittatore Cesare, cui toccò in petto la lama affilata del figlio adottivo e ribelle, fiero del regicidio perché i re erano stati cacciati da quasi cinquecento anni ma i loro fantasmi non avevano mai smesso di agitare i cives romani.

I secoli, dal 509 al 27 avanti Cristo, dell’espansione implacabile di Roma. Un boom geopolitico che fece da traino all’economia. Roma metropoli divenne un brulicare di insulae con i condomìni affollati.  Ed ecco le botteghe artigiane, il gusto del cibo, i colori dei templi e delle statue, le strade trafficate, le mirabili imprese delle vie consolari, i pozzi e poi i primi quattro acquedotti….

“La Repubblica di Roma” narra i progressi nella vita pubblica e i costumi dei cittadini

I 1800 reperti che animano la rassegna intitolata appunto “La Repubblica di Roma” narrano proprio questo, i progressi nella vita pubblica e i costumi dei cittadini. Il sottotitolo poi, “Il racconto dell’archeologia” testimonia della scoperta e della conservazione di questi oggetti. Tutti provenienti dalle collezioni capitoline e per lo più mai esposti: il sottosuolo li restituì durante i due più intensi (devastanti) periodi di scavi vissuti dalla città:  subito dopo l’Unità e la presa di Porta Pia, quando i Re Piemontesi rovesciarono come un calzino la novella Capitale, e giù rioni, palazzi,  per realizzare nuovi quartieri dalle grandi piazze; e dalla seconda metà degli anni Venti e fino ai Trenta, per creare larghe strade, a cominciare dalla Via dell’Impero. E dunque gli archeologi si trovarono di fronte a montagne di reperti che non fecero in tempo a studiare e che furono stipati in casse, poi sistemate nell’Antiquarium capitolino.

Adesso  la rassegna curata dal Sovrintendente Claudio Parisi Presicce e da Isabella Damiani – che segue quella dedicata alla Roma dei Re vista prima della pandemia, in una ricostruzione a puntate della Storia antico romana  - ci aiuta a capire come funzionava la città repubblicana e come vivevano i suoi abitanti. I quali eleggevano i propri rappresentanti. E dunque le Gens dovevano conquistare il consenso degli elettori, puntando al prestigio di una famiglia integerrima, curando la memoria degli antenati, decorandone le tombe sulle vie consolari.

“Non è una storia narrata attraverso i personaggi, qui si vuole raccontare la vita degli anonimi”, avverte Presicce e cita Flaubert: “Non sono le perle che compongono il collier, ma il filo”. Così ci si trova a guardare nel pavimento, dentro teche trasparenti, segmenti di mosaici dalle domus di grandi famiglie, tra i più antichi, in bianco e nero, a losanghe, a scacchiera. E ci si imbatte nella ricostruzione di un pozzo, trasformato in deposito votivo allorché le fontane degli acquedotti resero superflua la captazione dell’acqua che dava decoro all’Urbs e allora giù nel buco nero oggetti sacri caduti in disuso, perché erano materiali che non si potevano alienare.

 L’allestimento intende restituire non tanto la qualità ma la quantità dei reperti, a testimoniare la mole di lavoro che si trovarono e si trovano di fronte archeologi e restauratori. Così cassetti mezzi aperti si rivelano ricolmi di piccole terrecotte, di ex voto in forma di mani, piedi, teste per grazia ricevuta in tema di salute (“A Minerva Memore. Tullia Superiana per essere stata guarita dalla calvizie sciolse il voto volentieri avendolo la Divinità ben meritato”, recita una dedica). Anfore, lampade, utensili, monete occhieggiano dalle vetrine manco fossimo in un negozio di casalinghi.

Ci sono i frammenti altolocati, provenienti da edifici religiosi e certosinamente ricollocati dagli studiosi su gigantografie del tempio com’era

Ma poi ci sono i frammenti altolocati, provenienti da edifici religiosi e certosinamente ricollocati dagli studiosi su gigantografie del tempio com’era. Da piazza Argentina, proprio là dove Cesare fu ucciso, arrivano brandelli di rivestimenti in terracotta a protezione delle trabeazioni lignee e scopriamo che hanno tracce di colore, in una città che voleva apparire dipinta; da via Latina il recupero di un frontone sconosciuto i cui pezzi erano finiti a Firenze e poi sono tornati a Roma ( e ci si incanta di fronte alla nervosa testa di un cavallo e ai ricostruiti – con tecnologie di rilievo 3D - Giove, Giunone e Minerva); fino alla rutilante riproposta grafica del Tempio di Giove Optimo Maximo, fulcro del Campidoglio, che era decorato in rosso, ocra e nero e che in mostra ritrova molti suoi frammenti rimessi al posto giusto).

Si diceva dei costumi sobri, del culto della famiglia, nella Roma repubblicana. Nel grigio della pietra lavica – il peperino – ritroviamo simulacri della triade padre-madre-figlio. Una testa femminile dà conto della grazia senza sfarzo della capigliatura. Ma ci sono anche esempi di raffinatezza, come nel piccolo e perfetto “Capro” in bronzo trovato in via Magenta nel 1878, inizio V secolo avanti Cristo, conservato nella Centrale Montemartini in via Ostiense, mirabile edificio di archeologia industriale convertito in raccolta di antichità dalle collezioni capitoline.

Di fronte a tanti input si comprende meglio il carisma del motto “Senatus popolusque romanus” che incarna la Repubblica. E dicono molto le parole di Cicerone, accanto al suo busto che accoglie i visitatori: “La Res Publica è cosa del popolo: e il popolo non è una qualsiasi associazione di uomini, ma un’unione fondata su interessi e diritti comuni”.

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