Accucciata sulla sabbia di una spiaggia deserta, il sole mite della mezza stagione, una giovane donna bionda divide in minuscoli mucchi i granelli che tiene nel palmo della mano. Fa qualche passo sul bagnasciuga, tra le onde basse, si gira avanti, indietro. Poi si avvicina a uno sconosciuto: “Scusi, mi sono perduta”. Il ragazzo la riporta a casa, una villa appoggiata sulla spiaggia e alla donna, che si chiama Monica, va incontro il marito. Però gli dà del lei, come a un estraneo, gli chiede un bicchier d’acqua che beve di fretta e sembra una bambina inconsapevole. È l’incipit di “Mi fanno male i capelli”, di Roberta Torre, passato oggi tra gli applausi alla Festa del Cinema, dove è in concorso nella sezione principale, e già domani nelle sale. Uno dei titoli più attesi della kermesse, perché a ispirare la regista è un’altra Monica, la Vitti, pure lei tormentata negli ultimi decenni di vita (è scomparsa il 2 febbraio del 2022) da una inarrestabile forma di perdita di memoria, cominciata, ha raccontato, col dimenticare le battute dei film che stava girando.
La iconica protagonista del ciclo di pellicole di Antonioni è la presenza in filigrana di “Mi fanno male i capelli”. Alba Rohrwacher, la Monica uscita dal soggetto e dalla sceneggiatura di Roberta Torre, combatte a modo suo la tenaglia della perdita di sé vivendo una vita parallela, quella appunto di Vitti. Assecondata da un marito, Edoardo, che la ama incondizionatamente (come ha fatto con la vera Monica attrice il marito Roberto Russo), cullandola nei sogni di essere la star italiana, gli unici che le danno felicità e senso di vivere: un’operazione che può attuarsi grazie anche al “confinamento” della coppia nella seconda casa al mare, lasciando Roma e il suo frastuono anche a causa del dissesto finanziario di lui.
All’inizio Edoardo cerca di risvegliare i ricordi della moglie facendole vedere i filmini girati durante i loro viaggi all’estero, dalla Thailandia a Parigi. Oppure invitando a cena gli amici di vecchia data. Situazioni e facce che regolarmente alla giovane donna appaiono sconosciute. Ma quando scopre i film di culto di Monica Vitti e li guarda ossessivamente, scrivendo su un taccuino le battute e imparandole a memoria (che l’immedesimazione fa funzionare) lui s’arrende e anzi impersona via via i partner cinematografici della Vitti. Una battuta di “La notte” convince la protagonista che è la medesima persona del grande schermo: “Ho l’impressione di scordarmi ogni giorno di qualcosa”, dice Vitti a Mastroianni. E ancora: “Mi succede una cosa assurda. Non distinguo tra quello che sogno e quello che vivo”.
Così l’immersione nel suo doppio si perfeziona sempre di più. Stesse pettinature (capelli corti e neri, abitino nero a sottoveste, per esempio), stesse iconiche mise. Davanti allo specchio prova abiti e cappelli (e forse qui la pellicola rallenta il suo ritmo), e lo specchio stesso si anima, rimanda la figura della Vitti, di Alberto Sordi, di Michele Placido: amici per la smemorata, con i quali ella si confida e condivide i sogni. L’ultimo, il più eccitante: fare la madrina alla riapertura della casa-museo di Albertone. Ennesimo cambio forsennato di vestiti, fino alla scelta giusta: quello indossato da Dea, la protagonista di “Polvere di stelle”. Illusa di raggiungere Roma per accogliere gli ospiti dell’inaugurazione, Monica la smemorata corre incespicando nello strascico sulla spiaggia deserta. Una sequenza commovente, che oltretutto rimanda ad altre spiagge della storia del cinema: quella di “La dolce vita”, con Valeria Ciangottini; quella di “Amore mio aiutami”, là dove, sulle dune, Alberto Sordi prende a schiaffi la Vitti.
La pellicola è un omaggio senza retorica ma con poesia alla attrice comica e drammatica. Monica-Alba si alterna sullo schermo all’altra Monica, e sono i primi piani di “Teresa la ladra”, di “Deserto rosso” e “L’eclisse”, di “Polvere di stelle”, appunto. Allarga il campo Roberta Torre: “È un film che parla di fantasmi e in un certo senso li evoca, li interroga o più semplicemente vuole passare del tempo con loro, comici o divini. Il tema è anche la perdita della memoria emotiva, storica. La memoria e l’identità sono legate profondamente, cancellando il passato l’identità scompare. Prendere a prestito una memoria è possibile per ritrovare se stessi? Questa domanda mi ha aiutato nel racconto del film. E ancora: dimenticare è necessario? Svuotare la cache, fare spazio, ripulire…”.
Alba Rohrwacher accolla su di sé questi interrogativi, cucendo sulla pelle della sua smemorata una ingenuità e insieme un’introspezione che accresce il mistero esistenziale del personaggio. Filippo Timi alterna gli slanci verso la donna che ama e che protegge alla silenziosa triste consapevolezza del tracollo, anche economico, della propria vita, mentre si aggirano attorno a lui interessati consulenti immobiliari e una ambigua madre. Le musiche avvolgono i personaggi, e sono glamour, da pellicole anni Sessanta. Quelle originali recano la firma di Shigeru Umebayashi, che alla Festa di Roma ha appena ricevuto il Premio alla Carriera.
28 novembre 2024