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29 aprile 2024
di Lidia Lombardi

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Guido Aretino
Guido Aretino
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Nelle vesti di presidente dell’Unione Nazionale Arte Musica e Spettacolo ha appena dedicato una conferenza-concerto nella prestigiosa sede della Società Dante Alighieri al Canto Italiano, a dicembre scorso proclamato dall’Unesco Patrimonio Immateriale dell’Umanità. E della musica Dora Liguori è una “vestale”: ha presieduto il Consiglio Superiore per l’Alta Formazione Artistica e Musicale, è stata titolare di cattedra di canto al Conservatorio di Santa Cecilia, è scrittrice di saggi e romanzi, musicista, regista, autrice di libretti d’opera. E dunque, dal suo osservatorio, plaude e disamina quanto accade nel panorama della lirica.

 

Professoressa Liguori, il canto lirico italiano è nella lista dei Beni Immateriali dell’Umanità. Un riconoscimento che sarà celebrato il prossimo 7 giugno all’Arena di Verona con la presenza di centocinquanta professori d’orchestra e trecento artisti del coro. Alloro del resto doveroso, l’opera è nata nel Belpaese. Con quali tappe?

Parlando di tappe sarebbe storicamente esatto dire che, in primis, la musica, come oggi la intendiamo, è nata in Italia nel Medioevo, grazie al monaco benedettino Guido d’Arezzo, che visse tra il 992 e il 1050, e di seguito a varie forme di attività musicali. Volendo invece specificamente riferirci all’opera, occorre rifarsi, nel Cinquecento, alla arcinota Camerata de’ Bardi. Era composta da una serie di intellettuali, che si riunivano, in Firenze, nella casa del conte Giovanni Bardi per disquisire sulle scienze, la musica, la letteratura e le possibili nuove formule teatrali. Ad un certo punto ma non sappiamo a chi di loro (forse a tutti), venne in mente di riproporre uno spettacolo che, sì, ricalcasse il glorioso teatro greco ma con alcune varianti. Ossia: mentre gli spettacoli greci contemplavano l’esecuzione di  musiche, a noi non compiutamente pervenute, un coro narrante e l’intervento di attori finalizzati a dare vita ai personaggi e alle storie che si andavano a raccontare, il nuovo tipo di spettacolo, fermi restando musica e coro, avrebbe dovuto prevedere in scena attori che, invece di recitare con voce stentorea, avrebbero dovuto cantare… dicasi il: Recitar cantando. Ecco nata in embrione quella che sarebbe divenuta nel giro di pochi anni la gloriosa Opera Lirica italiana.

 

Il canto lirico è anche chiamato “belcanto”.  Perché?

Il termine nasce, sempre alla fine del Cinquecento, nella scuola del compositore romano Giulio Caccini ed era finalizzato alla volontà di porre in condizione i cantanti di ottenere, attraverso lo studio, una emissione vocale sempre più perfetta, con passaggi omogenei della voce dalle note più basse a quelle più acute. Oggi si direbbe ottenere l’“Eufonia”. Ma la sempre più grande popolarità nonché la accesa competizione instauratasi fra i cosiddetti e imperanti cantanti castrati finì col rendere astruse e sempre più iperboliche le loro esecuzioni, che via via si trasformarono in astratte esercitazioni, poco rispondenti al bello di una melodia.

 

 

Come se ne uscì?

Tra la fine del Seicento e i primi del Settecento, a riempire questo vuoto pensò la grande scuola napoletana che, opponendosi alle ridondanti opere tragiche, riserva assoluta dei castrati, inventò la “Comedeja pe’ museca”, una specie di Commedia musicale (Broadway non ha inventato nulla) comprendente intermezzi parlati. In questo contesto divenne sempre più preminente la figura dell’“amorosa”, una voce di soprano che sapeva raccontare, attraverso struggenti melodie, spesso attinte dagli autori ai canti del popolo, la passione e gli affanni d’amore. Importanti compositori del genere sono Pergolesi, Paisiello, Cimarosa…

 

Ebbero successo?

Eccome. Godettero subito dei favori del popolo che affollava i teatri napoletani; pubblico che, a fronte delle paludate esibizioni dei castrati interpretanti quasi sempre improbabili eroi greci, iniziò a preferire il dolce o bel cantare dei cantanti, come dire? normali (soprattutto soprani). Costoro, con grande perizia e struggente dolcezza, portando in scena figure del popolo, sempre presenti nelle buffe Comedeje, cantavano melodie semplici ma di grande bellezza. Infine è probabile che un termine nato ad uso e consumo dei castrati finì invece per identificare la dolcezza del canto, che senza inutili orpelli sapeva esprimere i sentimenti d’amore. Su questa scia, tralasciando in parte le aride acrobazie canore, si mossero, poi, i maggiori compositori dell’Ottocento, soprattutto il più grande di tutti: Vincenzo Bellini. Senza dimenticare l’arguzia di Gioacchino Rossini, che amava far interpretare parti maschili alle donne, come nel “Tancredi”.

 

L’opera lirica è italiana e il mondo ce la invidia. Ma come mantenere la sua integrità, ovvero quella dei molteplici melodrammi firmati da compositori celeberrimi?

Per integrità immagino si voglia significare il mantenimento dell’idea dell’autore, cosa purtroppo oggi divenuta, praticamente, rara. Infatti, il novanta per cento degli attuali registi con furia iconoclasta, oserei dire, distrugge, per l’appunto, l’ambientazione, il libretto e, in parole povere, proprio l’idea originale dell’autore. Il povero pubblico tenta di fischiare ma la maggior parte dei sovrintendenti, non so se per autentico masochismo o per problemi a noi sconosciuti, continua, è il caso di dire, a infischiarsene del parere di chi paga il biglietto. Strana noncuranza poiché il pubblico o meglio il cittadino, è quello che alla fine, attraverso le tasse, fornisce loro il denaro per porre in essere simili spettacoli. O tempora, o mores! Direbbe Cicerone.

 

 

Pavarotti, Tebaldi, Freni, Tito Gobbi, Luca Salsi, perfino la Callas che pur greca è fiorita alla Scala: numi tutelari del melodramma. Lei chi mette sul suo personale podio?

Leggendaria, dal punto di vista dell’estensione vocale, Lucrezia Agujari. Nei suoi anni d’oro, tra il 1766 e il 1775, possedeva un’estensione per tre ottave e mezzo, pare fino Do6, come testimoniato da un quattordicenne Mozart. Ma non posso non citare Maria Malibran, una delle più famose cantanti liriche dell’Ottocento, grande amore non corrisposto di Bellini, celebrata dall’omonimo teatro veneziano. Nei tempi più vicini a noi, inarrivabile Maria Callas e, nelle voci maschili, Enrico Caruso e Luciano Pavarotti.

 

Quanto sono apprezzati oggi i cantanti lirici italiani?

In Italia pochissimo! Senza rifugiarsi nella retorica, viste le scarsissime presenze nei cartelloni delle Fondazioni, è possibile dire che il nostro Paese è un nemico giurato dei propri figli canori. Da cosa nasce tutto ciò non sta a me raccontarlo e anche la magistratura è intervenuta più volte per districare una simile assurdità; purtroppo molti sovrintendenti per giustificare il tutto spesso danno anche spiegazioni che rasentano l’offesa, ossia dicono che è loro compito ingaggiare i migliori artisti presenti sul mercato… come dire: al danno la beffa. Infatti il più delle volte, a parte alcune eccellenze doverose da ascoltare anche in Italia, la stragrande maggioranza di questi stranieri non solo sono mediocri ma addirittura, per le loro incapacità canore, inascoltabili. Il pubblico al solito reagisce fischiando ma i sovrintendenti, come avviene per i registi, mantengono l’orecchio duro. L’unico a intervenire potrebbe essere il Ministro della cultura Sangiuliano… ma lo farà?

 

Il canto è espressione naturale dell’individuo. I bambini cantano già in tenerissima età. Però il canto non è più insegnato e praticato a scuola, a partire dalle elementari, com’era fino a qualche decina di anni fa. È stato sostituito, ma solo alle medie, dall’insegnamento di uno strumento musicale, per lo più il flauto...

Ho rappresentato la situazione al ministro Valditara che si è mostrato molto sensibile alla tematica. Infatti in un Paese che ha inventato la musica è davvero aberrante che la medesima non venga insegnata nelle scuole né a livello di cultura né a livello di professione, e neppure a livello di canto, che dovrebbe rappresentare la più immediata espressione artistica nella formazione del fanciullo; né può il flautino compensare simili mancanze. Spero nelle ottime intenzioni del ministro Valditara.

 

A una sparizione dell’educazione musicale a scuola fa da contraltare la passione di tanti dilettanti per il canto: innumerevoli le corali, frequentate da uomini e donne di diverse età. Il canto torna così alla sua funzione più naturale, liberare l’animo dalle angosce, permettere a ciascuno di esprimersi modulando istintivamente la voce. Il canto come terapia contro lo stress?

Le corali, soprattutto nel centro-nord dell’Italia, ci sono sempre state e, oltre ad essere un portentoso strumento di socializzazione, hanno anche la capacità di costruire armonia, una parola che dai greci in poi sta alla base del mondo. Ben vengano pertanto le corali ma nel contempo ricordiamo di porci all’altezza degli altri Paesi del mondo che da tempo non solo hanno inserito la storia della musica e la storia dell’arte nel contesto della formazione (musica come cultura) ma hanno anche costruito una “filiera musicale” professionalizzante che consente ai loro artisti di primeggiare in tutte le competizioni mondiali. E gli italiani? Sono i migliori, però lo Stato non solo non li considera ma li costringe, se vogliono espletare il loro mestiere, a percorrere tutte le strade del mondo. Quanta ingiustizia e quanta amarezza!

 

 

 

 

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