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16 aprile 2024
di Lidia Lombardi

Il melodramma dipinto

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Era strabico, per questo lo chiamavano Guercino. Ma è stato infallibile il colpo d’occhio di questo Maestro del Barocco che ora una possente mostra celebra, seguendo quelle di Cento – la sua città, in occasione della riapertura della Pinacoteca Civica – e di Bologna e anticipando la rassegna che in autunno popolerà le Scuderie del Quirinale. L’appuntamento per l’apertura è il 23 marzo a Torino, nelle Sale Chiablese dei Musei Reali, in quel palazzo che fu il centro di comando della famiglia Savoia e nella cui visita è compresa anche la Cappella della Sacra Sindone.

 

Appunto negli ambienti espositivi al piano terra si sciorineranno cento opere del Guercino, ovvero di quel Giovanni Francesco Barbieri che – nato nel cuore dell’Emilia nel 1591 e morto settantacinque anni dopo a Bologna – incarnò appieno i modi della pittura barocca. E infatti nel proprio naturalismo inserisce la maestria del chiaroscuro per la resa dettagliata della drammaticità delle scene riprodotte.

 

E, nell’approccio ravvicinato alle figure, nell’accentuazione dei gesti e delle espressioni, dà vita al gran teatro della pittura. Perché, oltre al sentire dell’epoca, che già mette in dubbio le certezze, lo influenza l’ascesa del melodramma, il nuovo modo di fruire musica. Ed ecco allora le mani levate di San Francesco, solo, stretto nel saio, inginocchiato nell’oscurità della notte mentre un suo seguace dorme. Ecco la luce che da sinistra squarcia il corpo di Cristo nell’“Ecce Homo”, i polsi legati, i rivoli di sangue sulla fronte e sulle guance, scesi dalla corona di spine. Sono “attori” di quel palcoscenico degli affetti che segna il periodo.

 

Già, la musica. Ad essa Guercino aveva dedicato un’intera sala, affrescando, ventiquattrenne, con scene di paesaggio la villa del conte Bartolomeo Pannini, a Cento. Uno dei sei ambienti, appunto la Camera della Musica, aveva dipinti sulle pareti nove pentagrammi. Gli affreschi, rovinati dall’umidità, furono ricoperti con intonaco nell’Ottocento. Ma le partiture possiamo leggerle ancora oggi: perché nel 1760 l’enciclopedico Francesco Algarotti, di passaggio a Cento, le vide e ne fece ricopiare cinque – le meglio conservate – a padre Martini, considerato tra i più eruditi musicisti del XVIII secolo.

 

 

Ha un sottotitolo indicativo l’esposizione a Palazzo Reale di Torino: “Il mestiere del pittore”: perché nelle dieci sezioni – che presentano opere provenienti da trenta importanti musei e collezioni, tra i quali il Prado e l’Escorial – si dà conto degli aspetti concreti, quotidiani del fare arte. La formazione e la gavetta, la progressiva ascesa e la bottega, i committenti, i gusti del pubblico, il listino prezzi delle opere, le mode.

Guercino si presenta subito con il proprio autoritratto, che viene da Londra: volto affilato, bocca resa ancor più sottile dai baffi rivolti all’insù e dal nero pizzetto (“Fu di statura competentemente alta, gracile, carne bianca e rossa, con subdominio di bile, temperamento buono” scrive il biografo, Cesare Malvasia).

 

Fece il suo apprendistato tra Bologna e Ferrara, avendo come maestri e modelli i Carracci, Dosso Dossi, lo Scarsellino. E comincia a rappresentare la realtà come paesaggio, un tema che poi abbandonerà nei dipinti, ma che continuerà a riprodurre nei disegni, una sorta di passatempo, praticato anche la sera, dopo cena, mentre chiacchiera con i familiari. Ma il colpo di fortuna arriva quando apre a Cento, in due stanze, l’Accademia del Nudo. Così da allievo diventa maestro. E sorprende padre Antonio Mirandola, che sarà il suo promotore e lo presenta al cardinale Alessandro Ludovisi, arcivescovo di Bologna.

 

Per lui realizza quattro grandi tele di soggetto religioso (un ciclo, tra cui il toccante “Ritorno del figliol prodigo”, che la mostra riunisce dopo quattro secoli). Tre anni dopo, nel 1621, il potente porporato diventa papa con il nome di Gregorio XV. E chiama a Roma il pittore di Cento, che vi rimarrà fino al 1623, tra l’altro affrescando il carro dell’Aurora nel Casino Ludovisi sul colle del Quirinale. Un trampolino di lancio che vede il Nostro chiamato in Francia da Maria de’ Medici, in Inghilterra da Carlo I, nelle corti dei d’Este a Modena, dei Gonzaga a Mantova, dei Savoia a Torino (la Galleria Sabauda ha un’intera sala a lui dedicata), dei Medici a Firenze.

 

Ma pure i nobili, i preti, i borghesi comprano nella bottega del Guercino. E qui si definisce il mercato dell’arte nella prima metà del Seicento. Vi lavora anche il fratello, Paolo Antonio Barbieri, specializzato in nature morte, i cosiddetti “soggetti di ferma”. Magari poi interveniva lo stesso Guercino, per aggiungere figure, come ne “L’ortolana”. I disegni preparatori per ogni opera poi vengono messi da parte, magari riutilizzati in seguito, per non sprecare nulla dell’invenzione. E di molte opere si fanno repliche, secondo una precisa deontologia professionale che vieta di smerciarne prima dell’uscita dell’originale.

 

Il successo dello studio Barbieri aumenta dopo la morte di Guido Reni (suoi lavori  in mostra insieme ad alcuni Carracci e Domenichino). Dal 1629 al 1666 tengono un Libro dei conti dal quale si evince anche il prezzario dei quadri: un tot per mezze figure o figure intere, per la resa di più personaggi, per i colori utilizzati, e c’è un costo aggiuntivo per l’azzurro lapislazzulo o per certe lacche.

Ma si considera anche il portafoglio del committente: più gonfio lui, più caro il prodotto. Che può costare 500/600 lire (bella cifra, se si pensa che un chilogrammo di pane costava allora un decimo di lira. Però capitava anche che lievitasse fino a diciottomila, di lire).

 

Le ultime tre sezioni dell’esposizione (prodotta da CoopCulture con Villaggio Globale International, allestita fino al 28 luglio 2024) danno conto dei temi in voga, ai quali Guercino & c. si adeguano. È l’epoca della rivoluzione di Galileo, perciò è d’uopo raffigurare “Atlante che regge il globo” (Firenze, Museo Bardini) o “Endimione col cannocchiale” (Galleria Doria Pamphili di Roma). Ma tiene banco anche la stregoneria, dunque il Maestro disegna con ironia e scetticismo maghi e streghe, come quella seminuda con torcia e faccia scimmiesca conservata a Varsavia o “Il Mago Brumio”, testimonianza delle credenze popolari ancora diffuse.

 

E poi le Sibille e le “femmes fortes”, altro tema gettonato dal pubblico, sicché dai Musei Capitolini di Roma arriva la “Sibilla Persica” seduta pensosa allo scrittoio; dalla Collezione Marini Clarelli Santi di Perugia una “Diana” più assorta che cacciatrice, poi replicata in versioni agguerrite, capelli al vento e lancia impugnata nella mano destra. Accanto sono esposte anche “Lucrezia” e “Cleopatra”, divine nell’immaginario seicentesco. “Guercino – osservano le curatrici della rassegna, Annamaria Bava e Gelsomina Spione – mette magistralmente in scena l’ultimo atto della tragedia, rendendo partecipe lo spettatore e trasportandolo nella sublime emozione dello spettacolo barocco”.

 

 

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