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27 ottobre 2023
di Lidia Lombardi

I limoni d'inverno e la solidarietà all'improvviso

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Un film delicato e profondo, con due straordinari protagonisti. Un film quieto e sapiente, perché riflette sulle angosce che ciascuno conta nel proprio vissuto e che invece di incattivirlo si possono sciogliere imparando a confidare in un altro, magari conosciuto per caso.

“I limoni d’inverno” è il secondo lungometraggio di Caterina Carone. Alla Festa del Cinema, dove è passato nella sezione Grand Public (nelle sale arriverà il 30 novembre), ha attirato una calorosa accoglienza da parte del pubblico assiepato dietro le transenne: e già, sul tappeto rosso ha sfilato Christian De Sica insieme con Teresa Saponangelo: lui il beniamino dei cinepanettoni, il trasformista in tanti spettacoli, anche televisivi. Lei l’attrice già premiata in teatro, che è “esplosa” nel film di Sorrentino “E’ stata la mano di Dio” per il quale ha ricevuto il David di Donatello come migliore non protagonista.

Ma “I limoni d’inverno” ha anche ricevuto applausi alla proiezione. Si è imposto per saper raccontare una storia apparentemente semplice, fatta di poco, che per la prima metà pare scorrere verso un binario scontato e che invece rivela di fotogramma in fotogramma quello che c’è dietro le apparenze.

E’ la storia di Pietro, un professore di lettere al liceo in pensione, un intellettuale “topo di biblioteca” che sta scrivendo un libro (forse l’ultimo) sulle donne che hanno lottato per affermarsi, da Tina Modotti a Zelda Scott Fitzgerald. Vive solo, mangia tramezzini che gli porta il ragazzo del bar sotto casa con quale scambia volentieri quattro chiacchiere e ha una passione per le piante che riempiono il suo terrazzo, in una palazzina primo Novecento di Roma, di quelle con il cortile che dà accesso a più scale, circondata dai palazzoni anni Cinquanta. La novità che rompe le sue giornate di meditazione e scrittura arriva da una coppia che trasloca nell’appartamento con terrazzo di fronte al suo. Ele, la donna, è la pierre del marito, fotografo sempre affannato a sfornare immagini artistiche nel proprio studio. Pure lei ambisce ad avere il pollice verde. Sicché viene naturale ai dirimpettai di scambiare qualche parola sul cedro che rischia di appassire nel caos nel trasloco e sul limone di lui che si ostina a non fare neanche un solo frutto, nonostante le cure. Ele discute spesso con il marito, e Pietro – vetrata aperta sul terrazzo – sente suo malgrado le frasi di insofferenza di quei due, i rimpalli di accuse, lei che reclama un tempo slow, nella quotidianità, lui che la sollecita comunque a fare e fare in fretta.

Quando poi per il fotografo arriva l’annuncio di una personale che vuole dedicargli una famosa galleria di New York e lui parte tronfio, rivendicando l’orgoglio di essere stato finalmente apprezzato, Ele decide all’ultimo momento di non seguirlo. Diventano allora più frequenti parole e sorrisi con il dirimpettaio: dallo scambio di brindisi da un terrazzo all’altro Pietro e Ele passano a una passeggiata all’Orto Botanico e poi la serata finisce a bere un cocktail. L’intreccio di confidenze si fa più serrato: lei si rammarica di non aver proseguito l’iniziale formazione nella pittura, perché si è sentita poco adeguata, lui spiega perché la moglie lo ha lasciato. E mentre lo spettatore si aspetta che tra i due il feeling diventi molto di più, ecco che vengono a galla i nodi dolorosi. Eleonora ha perduto una figlia appena nata, Pietro è angosciato dai sempre più frequenti episodi di black out della memoria. Il ragazzo del bar, al quale il professore dà qualche lezione di italiano e letteratura perché vuole iscriversi a un corso serale, lo accompagna in clinica per capire cosa non funziona. E la sentenza è angosciosa.

Ecco allora che la pellicola di Carone (che nel film opera prima, “Fraulein – Una storia d’inverno”, 2016, ha già diretto Christian De Sica e pure quella è una storia di due solitudini) diventa una riflessione sul declino esistenziale, sul ritegno di fronte a certi sfaldamenti dell’io, sul macigno che ci si porta dentro. Che la sceneggiatura (della stessa Carone insieme con Mario Luridiana, Remo Tebaldi, Anna Pavignano e Alessio Galbiati) e la regia risolvono indicando un medicamento, quello della solidarietà che viene all’improvviso, del sostegno reciproco non dovuto e per questo più significativo. A Pietro lo danno il giovane barista (forse il personaggio meno risolto del film, anche se tra due si intuisce un’immedesimazione padre-figlio), il fratello minore pure lui solo e preso dal restauro di un peschereccio a Fiumicino, soprattutto lo dà Ele, prima che la sua strada si separi da quella del professore. Ripetendosi con Lev Tolstoj che “per essere felici bisogna credere innanzitutto nella possibilità di esserlo”.

Ma non c’è retorica, nel film. Che è sorretto anche dalla prova dei due protagonisti. Un De Sica in stato di grazia, qui che è uscito dalle gag sboccate dei film di Natale. Capace di esprimere nei moti del volto, nei gesti l’interiorità  malinconica del suo personaggio, e poi di vivacizzarlo impercettibilmente, allorché gli si profila la possibilità di condividere una passeggiata, un’emozione, una gita a Fiumicino con la vicina. Teresa Saponangelo non gli è da meno, nei sorrisi, negli scatti nervosi, nelle fissità davanti ai pensieri che la conducono finalmente verso scelte diverse per la propria vita. Affiancati bene dagli altri interpreti: Francesco Bruni, Luca Lionello, Max Malatesta, Agnese Nano. E sostenuti dalla colonna sonora di Nicola Piovani e dalla fotografia di Daniele Ciprì.

Dice  Carone, premiata autrice di documentari prima di passare a lungometraggi di fiction: “Spesso ognuno è chiuso dietro le proprie esaltazioni e i propri guai, alla ricerca di perfezioni e superiorità che riducono la vita a gara. I limoni d’inverno è invece un film di tutti, per tutti, parla a tutti. Un film di sguardi, di occhi che imparano a cercarsi e a specchiarsi gli uni negli altri. Una storia che invita a cogliere il senso e la bellezza anche dentro l’imperfezione, anche nelle fragilità. Ad assumere su di sé il proprio dolore per riuscire a trasformarlo in qualcosa, in qualcosa di bello, come le piante fanno con i frutti”.

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