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29 ottobre 2023
di Lidia Lombardi

Cento domeniche e i sogni che fanno crac

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Cinema di denuncia, cinema di impegno civile. Alla Festa di Roma lo abbiamo visto qualche giorno fa con ”Palazzina Laf” di Michele Riondino e, oggi, con “Cento domeniche”, di e con Antonio Albanese, che oltre alla regia firma soggetto e sceneggiatura in collaborazione con Piero Guerrera. Ha suscitato applausi calorosi e convinti alla proiezione per la stampa (nelle sale dal 23 novembre). Perché tocca con i toni giusti un tema che moltissimi ha coinvolto e tutti può coinvolgere: i crac delle banche, che mandano in fumo non i grandi patrimoni ma i risparmi accantonati in una vita di lavoro, quelli sui quali si conta per piccoli progetti, per fronteggiare la vecchiaia, per andare avanti con dignità.

Al centro della storia, appunto, un piccolo risparmiatore, Antonio, per quarant’anni tornitore in una fabbrica di barche, nella ricca Comasca, ville di imprenditori, signore-bene ma anche piccola borghesia di gente semplice e perbene. Antonio è uno di loro: è stato prepensionato, vive con l’anziana madre, è separato dalla moglie, e carezza da decenni un sogno: regalare alla figlia, l’unica sua figlia, una bella festa di nozze.

La vagheggia da quando Emilia (Liliana Bottone) era piccola: il gioco che faceva più volentieri con lei, divertita, era metterle un velo in testa e fingere di accompagnarla all’altare. Così quando la ragazza gli comunica che ha deciso di sposarsi, Antonio indirizza tutti i suoi pensieri – lui che gioca a bocce, cura l’orto, ha quotidiane premure per l’anziana madre, è amico di tanti nel paese affacciato sul lago, un’amante sposata e ricca che non cerca niente di più che qualche clandestina notte di piacere - alla miglior riuscita della cerimonia. E dunque oltre che dal sarto al quale ordina l’abito elegante si reca in banca, una delle tante “Popolari artigiane” che pullulano nella provincia italiana,  meta di tutti gli abitanti, frequentate con lo stesso atteggiamento, ripete Antonio, con il quale si va dal confessore. Riponendo insomma fiducia in quegli sportelli nei quali si consegnano i propri soldi.

Sennonché egli scopre che la liquidazione e gli altri suoi risparmi sono impiegati in azioni e non in obbligazioni, perché – gli dice il direttore – ha firmato lui stesso, inconsapevole, le carte per consentire quel tipo di investimento. E scopre poi che la banca è in sofferenza, dunque non può mettergli a disposizione nell’immediato i denari che vuole ritirare per pagare il matrimonio della figlia. Anzi, che quei soldi non li avrà mai più: ridotti a poche migliaia di euro, il resto volatilizzato, inghiottito nel vortice di deficit che sta portando l’istituto di credito al fallimento.

Antonio passa dalla incredulità alla condivisione della sua debacle finanziaria con i conoscenti. Dalla ribellione e alla vergogna per il raggiro – “Ho sbagliato solo io?” dice agli amici che gli rimproverano leggerezza – alla disperazione e alla depressione. Rinchiudendosi piano piano dentro se stesso, insonne  nonostante le gocce consigliate da una psicoterapeuta, sordo all’aiuto che la stessa figlia vorrebbe dargli. L’epilogo del film è tra i più amari mentre urla all’indirizzo dello scaltro direttore di filiale “vi fidate di lui e non di me?”.

Un epilogo al quale Albanese conduce trasformando a piccoli passi quell’uomo tranquillo in un disperato senza futuro. Un crescendo di drammaticità anche stilistico: dai ritmi lenti della prima metà del film, che segue il protagonista nei suoi rituali quotidiani, a quelli concitati delle ultime sequenze, allorché quel borghese piccolo piccolo urla la sua rabbia indossando l’abito da cerimonia appena ritirato dal sarto e diventato ai suoi occhi ormai inutile.

Le cento domeniche del titolo sono quelle che un collega, raggirato come lui e ricoverato in ospedale per un attacco di panico, gli dice di avere lavorato per mettere da parte il gruzzolo consegnato alla banca. Ed un sogno infranto è per il protagonista quell’unica domenica nuziale attesa per tutta la vita. “E’ un tema che non è stato affrontato al cinema e andava fatto – ha commentato l’attore-regista – Ci sono intere comunità depresse per questo motivo, onesti lavoratori ai quali si deve lo sviluppo del Paese. Io arrivo da quel mondo, ho cominciato a lavorare a quindici anni e fino ai ventidue ho fatto l’operaio. Potevo essere uno di loro, un prepensionato cinquantanovenne, e mi sembrava interessante raccontare questa sopraffazione, questa vergogna cercando di immedesimarmi il più possibile nelle conseguenze di atti criminali”.

L’immedesimazione c’è stata: l’Antonio Riva di Albanese trascolora dalla quieta percezione di sé, dalla dignità dell’uomo onesto alla perdita dell’autocontrollo che gli fa dire: “Sono stato un bravo operaio orgoglioso, adesso sono così stanco…”.

Lo affiancano attori tutti efficaci, oltre ad Emilia. Come Bebo Storti, Sandra Ceccarelli, Maurizio Donadoni, Elio De Capitani. E soprattutto una emozionante Giulia Lazzarini, nel ruolo della madre curva per gli anni, un po’ sorda, che tutto capisce nonostante sembri il contrario. La sua è l’unica spalla sulla quale il protagonista poggia la testa nella notte più buia.

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