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3 agosto 2023
di Marco Patricelli

Si fa presto a dire BOOM

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Ed è pure facile: si può persino italianizzare in bum. Talmente rapido e talmente semplice che lo sentiamo continuamente, a volte persino con significati opposti. C’è il boom dell’esplosione positiva e ubriacante, ma anche quello dell’eclatante fallimento per dare più forza al crac, che fa sì rumore ma con meno energia: un conto è lo scricchiolio che annuncia il crollo, per quanto devastante, un conto il boato dirompente. Potere dell’onomatopea, ma anche della penetrazione dell’inglese e di quella straordinaria invenzione narrativa che è il fumetto per descrivere un rumore scrivendone il suono. Tex Willer sarebbe assai meno convincente senza i bang bang delle sue Colt e senza gli zip dei proiettili che lo sfiorano appena, aumentandone l’aura di invincibilità. Quando usa la dinamite, naturalmente, i boom non mancano, e allora volano in aria cavalli e persone e schizzano dappertutto sassi e legni in una nuvola di polvere che annienta il cattivo di turno. Per il trionfo della giustizia, sia chiaro.

Il boom fa trionfare anche le virtù e le risorse, nella deflagrazione di un circolo virtuoso che si innesca da qualche parte e sprigiona poi un’arrembante reazione a catena. Per l’Italia nella storia c’è un solo boom a denominazione d’origine controllata e garantita, e tutti gli altri ne sono imitazioni su scala, ingigantiti dalla prosa giornalistica e dalla necessità di fare sintesi estrema su titoli ammiccanti.

Per l’Italia nella storia c’è un solo boom a denominazione d’origine controllata e garantita, e tutti gli altri ne sono imitazioni su scala, ingigantiti dalla prosa giornalistica e dalla necessità di fare sintesi estrema su titoli ammiccanti

Per l’Italia nella storia c’è un solo boom a denominazione d’origine controllata e garantita, e tutti gli altri ne sono imitazioni su scala, ingigantiti dalla prosa giornalistica e dalla necessità di fare sintesi estrema su titoli ammiccanti. Quando le Alpi facevano da barriera (ma ancora per poco) alla lingua degli Angli, si adoperò il termine italianissimo e comprensibile di “miracolo economico”. Il boom più travolgente della Penisola pre e post unitaria, l’unico vero, un ciclone che soffiò impetuoso e spinse un’intera società a risollevarsi dalle macerie morali e materiali della guerra perduta. Andava ricostruito di tutto e su basi diverse, dalle istituzioni alle case, dalle fabbriche alle campagne, per entrare finalmente nella modernità. Un’Italia arretrata nonostante le sbruffonate del fascismo, umiliata dalla guerra e dalle occupazioni, credeva e scommetteva nel futuro, da anticipare però nel presente.

E mentre raccontava e descriveva col neorealismo cinematografico ciò che era e non voleva più essere, conquistando autorevolezza e ammirazione culturale, si rimboccava le maniche, faceva di necessità virtù, trasformava il vorrei ma non posso in bellezza e utilità, in stile e trend. La Vespa di Corradino d’Ascanio è entrata nella storia dalla porta principale e si è accomodata nel salotto buono, come al Museum of Modern Art di New York, quale esempio di genio e di inventiva: non potendosi permettere un’automobile gli italiani colonizzavano le strade (ancora polverose) con uno scooter che non era una motocicletta e derivava, come concezione, da un aeroplano.

Milioni e milioni ronzavano e ronzano nei cinque continenti. Di quel boom la Vespa è un simbolo che avrebbe resistito a tutto, comprese le mode. Lanciò l’esplosione della crescita e dell’ottimismo che imperversò beneficamente tra gli Anni ’50 e ’60. Anni da record affastellati in una marcia trionfale. La lira, che molti ricordano come “liretta” dai tanti zeri, nel 1959 e nel 1964 salì sul podio più alto delle olimpiadi delle monete che veniva disegnato dal quotidiano economico inglese Financial Times. Un doppio Oscar, come veniva denominato in assonanza col firmamento delle stelle cinematografiche, alla lira che «si è affermata una delle più forti al mondo» la prima volta e perché, la seconda, «in pochi mesi, quando sembrava sull’orlo della svalutazione, ha riacquistato considerevole vigore (…) per la condotta economica più coraggiosa».

C’era un altro boom che lasciava vedere l’oggi e il domani in rosa; e in azzurro. La cicogna volava con la frequenza di un aereo low cost sulla Penisola e lasciava doviziosamente bambini e bambine: un colpo di reni demografico frutto dell’ottimismo e del “ce la faremo” e “comunque vada sarà un successo”. Per contrappasso gli ultimi arrivati agli inizi dei mitici Anni Sessanta sono quelli che oggi hanno qualche difficoltà ad andare in pensione. Eh sì, perché c’è il boom e lo sboom, con le culle che si svuotano dopo la generazione degli adolescenti degli anni “da bere”, gli Ottanta dell’edonismo reaganiano, dei paninari e dei Moncler d’ordinanza, quando tutto sembrava a portata di mano vivendo come se non ci fosse un domani, in un specie di ubriacante risveglio collettivo e di riemersione dal buio e dall’incubo degli anni di piombo: allora erano le pistole a fare davvero boom, perché col terrorismo le pallottole fischiavano e uccidevano. Oggi ogni calcolo previdenziale viene messo in crisi dalla no fly zone per le cicogne, col boom delle monoporzioni al supermercato per i nuclei monofamiliari e i giri di valzer delle coppie di tutti i colori e con le tinte dell’arcobaleno.

Quando internet venne sdoganato dai militari perché ritenuto obsoleto, i comuni mortali che si affacciavano sul mondo computerizzato si arrangiavano a cercare di comprendere la nuova scienza informatica con giocattolini domestici come i Vic 20, i Commodore 64 e l’avveniristico Zx Spectrum, che avevano tutti bisogno di registratore e nastro a cassetta per caricare i programmini. La vera esplosione era però incontenibile, più capricciosa nella sua deflagrazione della nitroglicerina di Ascanio Sobrero piuttosto che pianificata con la dinamite di Alfred Nobel.

Oggi i floppy sono archeologia industriale, gli sbalordenti portatili Olivetti preistoria, i telefonini pesano un ventesimo dei primi cellulari e l’autonomia è stupefacente, e l’ultima cosa per cui sono utilizzati è proprio telefonare.

Oggi i floppy sono archeologia industriale, gli sbalordenti portatili Olivetti preistoria, i telefonini pesano un ventesimo dei primi cellulari e l’autonomia è stupefacente, e l’ultima cosa per cui sono utilizzati è proprio telefonare. Il boom del “www” per tutto ha terremotato ogni concetto merceologico ed economico, ma anche sociale e culturale. La new economy degli Anni ’90 è stata travolta dai negozi virtuali e dall’e-commerce che ti porta in casa anche quello di cui non hai bisogno, e soprattutto quello. Il mondo si ridisegna come su una lavagnetta magica che puoi aggiornare a capriccio, per inseguire tempi veloci, velocissimi, anche troppo. Il boom dell’elettronica mette in vendita le mirabilia delle ultime novità, mentendo su un solo punto: nella migliore delle ipotesi sono la penultima, la terzultima generazione, perché la certezza è di comprare un prodotto già superato.

È un po’ come acquistare un’auto nuova facendo finta di non sapere che appena si supera il cancello della concessionaria, puf!, un quinto del valore è già svaporato. Non importa se sia benzina o diesel di tradizione e di evoluzione, oppure elettrico come nuova frontiera del silenzio e dell’ecologicamente corretto: c’è un boom indotto, col vento dell’Est alitato dal dragone della Cina, la nazione più boom di tutte e a tutti i livelli, da quello numerico alla tecnologia. Come mezzo secolo fa accadde col Giappone, allora irriso per voler copiare tutto ma poi capace di farlo meglio di tutti. TikTok è un colosso diffuso e inarrestabile nella sua penetrazione mondiale, come un virus mutante che si sviluppa dall’adolescenza in su, che ha schiacciato persino il ricordo del pulcino nipponico del Tamagotchi, tormentone virtuale dell’assistenza concreta che già passava dalle famiglie alle badanti. È il boom dei social in tasca e delle relazioni sociali in archivio.

Il rivoluzionario Facebook che mette implacabilmente la vita nella piazza virtuale è guardato dai millennials come il retaggio dei matusa: per loro è TikTok a creare le mode ed è Instagram ad articolare linguaggio e informazione senza frontiere e senza filtri, in attesa dei miracoli dell’intelligenza artificiale che ci toglierà anche la noia di dover pensare e di dover articolare il pensiero. Il boom delle fake news intanto lievita sullo sboom dei giornali, nel villaggio globale del Grande fratello si sbircia preferibilmente dal buco della serratura e la notizia serve ad accalappiare i like che fanno la fortuna di nuove categorie imprenditoriali, di cui gli (e le) influencer sono la punta dell’iceberg di un enigma avvolto dal mistero dell’etere.

La Tv, che dal 1954 ha educato e diseducato in dosi differenti e schizofreniche, passando dai mutandoni alle ballerine scosciate e al nudo esibito, non ha alcun appeal sui teenager e neppure su coloro che si rifiutano di crescere credendo in un’eterna giovinezza applicando la ricetta di non misurarsi con la realtà, perché scelgono di scansarla e di ritrovarsi nel mondo perfetto che una volta si chiamava virtuale e oggi metaverso: il minimo, se l’autoscatto è stato seppellito dalla valanga di selfie.

A volte i boom strutturali sono appena quelli di miccette di cui si ingigantisce l’eco, auspicando siano inneschi di qualcosa di più grande e più tonante.

A volte i boom strutturali sono appena quelli di miccette di cui si ingigantisce l’eco, auspicando siano inneschi di qualcosa di più grande e più tonante. Il miracolo economico degli Anni ’60 non ha aperto le porte dell’Arcadia e non ha neppure aperto la strada a una nuova era di ottimismo dopo la fine della Guerra fredda e della caduta del muro di Berlino.

Peace and Love? Mica tanto: pace da invocare e amore che ha trovato i suoi surrogati sullo schermo lattiginoso di un tablet o di uno smartphone. Fiori nei cannoni per non sentire più il boom, ma anche per non vederlo o non riuscire a intravederlo.

Una volta si brindava per festeggiare il posto fisso, adesso o lo si invoca come àncora disperata di salvezza o lo si schifa come una prigione dell’individualità professionale. E così si fa un brindisi al record dei contratti a termine, mai così tanti dal 1977, che fa crescere l’occupazione nominale dopo lo sboom del reddito di cittadinanza e delle incentivazioni a tutto. Un trentennio di decrescita tutt’altro che felice, con l’euro che doveva regalarci una mensilità e ci ha dato qualche grattacapo in più ogni mese e una competizione (e una competitività) a corrente alternata in Europa e sul mercato globale. Dalla pressione alla depressione.

Salutata con nostalgia la Dolce Vita di Flaiano e Fellini, manifesto dell’Italia che il mondo lo conquistava con quello che sapeva fare ed esprimere, delle vacanze romane resta l’immagine iconica di Gregory Peck e Audrey Hepburn in Vespa. Sempre lei, la Vespa, sempre diversa e sempre uguale che ci ha accompagnati nelle ascese e nelle discese delle montagne russe dei corsi e ricorsi storici, cambiando continuamente pelle ma non l’anima sbarazzina per correre rombando verso il nuovo boom che, se non c’è ancora, ci sarà. Prima o poi.

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