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5 luglio 2023
di Marco Patricelli

Motori a colori

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Quando nel 1908 Henry Ford lanciò il Modello T l’accompagnò con lo slogan di ordinarla di qualunque colore purché fosse nero. La scelta estetica cedeva il passo a quella economica e alle esigenze della rivoluzionaria catena di montaggio che tagliava i costi riducendo drasticamente i tempi di costruzione, facendo pagare dazio a quella ripetitività ossessiva dei gesti che Charlie Chaplin renderà iconici nel film “Tempi moderni” del 1936. Auto verniciate di nero, dunque, per infrangere il tabù di classe e aprire le porte alla motorizzazione di massa nell’anonimato monocolore.

L’Italia dovrà aspettare il boom economico del secondo dopoguerra, quando mille lire al mese non valevano neanche lontanamente come una volta, sulle strade borbottavano Vespe e Lambrette a miscela e le automobili ci si contentava di vederle sfrecciare, ammirandone le forme e voltando il capo verso quelle con i colori personalizzati che distingueva i proprietari.

La regola voleva auto nere o nerastre, con poche eccezioni.I colori, quelli veri, appartenevano alle vetture di lusso, che si potevano solo immaginare e che facevano sognare, d’appannaggio di nobili, milionari, gente che contava e comandava

La regola voleva auto nere o nerastre, con poche eccezioni. I colori, quelli veri, appartenevano alle vetture di lusso, che si potevano solo immaginare e che facevano sognare, d’appannaggio di nobili, milionari, gente che contava e comandava.

Le Bugatti, le Rolls Royce, le Isotta Fraschini, le Alfa Romeo, le Mercedes, le Lancia e persino le Fiat, affidate a carrozzieri e battilastra non ancora archistar che ne personalizzavano le forme, sfoggiavano aristocratici blu, raffinati azzurri, sgargianti rossi, eleganti verdi, abbaglianti bianchi, gialli da choc, osando anche studiatissime tinteggiature doppie tra i baluginii delle cromature e le linee filanti e le rifiniture certosine col pennello.

I colori erano una cosa seria, ben oltre le scelte di stile e di gusto, tanto che la Federazione internazionale tra gli Anni ’20 e ’30 codificò quelli dei Paesi con tradizioni motoristiche impegnati nelle competizioni, individuandoli da una tonalità della bandiera nazionale. L’Italia ebbe il vivace e aggressivo rosso corsa, la Francia il bleu da grandeur, l’Inghilterra il verde da lord, gli Stati Uniti il bianco e il blu yankee, la Germania il bianco prussiano, destinato a diventare e rimanere argento perché una volta i meccanici tedeschi, non riuscendo a ridurre di due chili il peso di una vettura da gara e stare così nel regolamento, non rimanendo altri pezzi da togliere grattarono via la vernice. Mercedes e Auto Union si guadagnarono sulle piste il titolo di “bolidi d’argento”: la prima tinta metallizzata era semplicemente il metallo nudo.

 

Tazio Nuvolari divenne invece “il diavolo rosso” sull’Alfa P3 che andò a umiliare i tedeschi in casa, al Nürburgring nel 1935. L’era degli sponsor spazzò via buona parte della tradizione cromatica nazionale, con l’eccezione della Ferrari (da un rosso all’altro) e della Mercedes (che all’argento non rinuncia).

La Fiat aveva dato un tocco pretenzioso alla prima microcar, la Topolino – che in realtà non si chiamò mai così per evitare problemi di diritti con la Disney –, lanciando la 500 in elegante livrea nera e amaranto che Paolo Conte avrebbe sublimato in una canzone dal sapore di madeleine proustiana. Nel dopoguerra il nero era lo zoccolo duro di un gusto estetico che doveva affinarsi e aspettava solo l’occasione giusta. Le vetture degli Anni ’50 e ’60 erano nere, grigie, bianche, timidamente celestine, gialline, verdine, e non rispecchiavano l’ondata di frizzante ottimismo che pervadeva la società italiana della ricostruzione, con la sua vivacità e gioia di vivere.

I cruscotti limitati all’essenziale erano rigorosamente nella lingua di Dante, dagli inarrivabili Stati Uniti si permutavano mode in sedicesimo come gli inserti in legno delle giardinette (le station wagon ante litteram), le tinte bicolori, il vorrei ma non posso su scala: le vetture americane erano il doppio in dimensione e almeno il quadruplo di cilindrata e lì i colori proliferavano. Intanto i nasi dei radiatori venivano trasformati in bocche assetate d’aria da rialitare calda e le fabbriche cominciarono a osare di più nei modelli e nelle proposte cromatiche, ma senza esagerare.

Sempre la Fiat, il marchio più popolare, azzardò una copia abbastanza spudorata della Corvair con la 1300-1500 e la propose persino con un blu non presidenziale e gli interni rossi per contrasto, tappezzeria sintetica fredda d’inverno e incandescente d’estate. Lo sdoganamento della tavolozza iniziò agli albori degli Anni ’70: sempre la Fiat colorò la rivoluzionaria 127 di verdone, verdino, arancione, cobalto, giallo, risparmiandole il datato grigio bottiglia dell’indistruttibile 124 che sarebbe finito in archivio per una quarantina d’anni e oggi conosce nuovi fasti vintage in chiaro e scuro pastello. Citroën con 2Cv e Dyane non risparmiò nessuna tinta giovanile neppure nelle sottili e risparmiose tappezzerie, così come Renault con la concorrente R4 e poi con la R5.

Sempre la Fiat, il marchio più popolare, azzardò una copia abbastanza spudorata della Corvair con la 1300-1500 e la propose persino con un blu non presidenziale e gli interni rossi per contrasto, tappezzeria sintetica fredda d’inverno e incandescente d’estate

L’Alfa Romeo si scatenò con l’Alfasud, ma presentò improponibili e incomprensibili marroncini, violetti, verdini e persino un rosa sbiadito (fortunatamente messi subito dopo al bando, pare per sempre) su carrozzerie che tendevano alla tonalità ruggine al solo guardarle, lasciando consolare gli alfisti col solo caratteristico rombo del motore boxer. La Lancia, simbolo di lusso sempre più appannato, aveva osato persino l’Appia blu metallizzato, non aveva disdegnato la Fulvia verdino scolorito e la Fulvietta marrone metallizzato.

Nessuno si schermiva più per il rosso acceso che faceva tanto vettura di servizio dei Vigili del fuoco, sparivano grigio cupo e grigio tenue per riapparire con la novità opzionale a pagamento del metallizzato, che faceva impazzire i carrozzieri in caso di ritocchi, perché prima dell’era del computer di miscelazione la tonalità della vernice non riusciva mai uguale a prima e le vetture monocolori diventavano disarmonicamente bicolori con distonica variazione sul tema. La squadrata Fiat 130, l’ammiraglia arrivata tardi (sarà l’ultima nella storia del Lingotto) e fatta a pezzi dallo choc petrolifero si ammanterà di metallizzato che faceva tanto importante e tanto pretenzioso.

La Lancia, simbolo di lusso sempre più appannato, aveva osato persino l’Appia blu metallizzato, non aveva disdegnato la Fulvia verdino scolorito e la Fulvietta marrone metallizzato

Veniva intanto rinnegata la tinta doppia, che aveva accomunato la scatoletta alla moda Mini e l’altezzosa Citroën DS, ambedue col tetto d’un colore diverso dalla carrozzeria. La francese disegnata da Flaminio Bertoni, quando si sollevava da sola da terra grazie alle sospensioni idropneumatiche, sembrava ti stesse facendo un favore a mettersi in moto e farti entrare nell’abitacolo in velluto simile a un salotto, l’inglesina hippy osava dannunzianamente l’inosabile con quelle ruotine ai quattro angoli, tutta brio e trasgressione.

Cadevano i tabù e crescevano i prezzi, aumentava l’offerta di versioni e di allestimenti e calava drasticamente la possibilità di non dover metter mani al portafogli per pagare extra che si dovevano necessariamente inserire nel pacchetto. Sembrava preistoria quando i modelli erano solo “N”, normali, e “L”, lusso. Persino la Nuova 500 pretendeva di essere di classe superiore con i fumettistici paraurtini a sbarre e le trasgressive tinte rosso-arancio e giallino ocra.

Ogni limite venne spazzato via dal boom della Y10 Autobianchi, l’utilitaria di lusso che, piacendo alla gente che piace, offriva un caleidoscopio di verniciature personalizzate, anche quelle di cui si ignorava l’esistenza, scansando l’imbarazzante marrone della Panda prima serie che aveva superato in curva le battute apotropaiche sulla NSU Prinz (e infatti sparirà per sempre dalla tavolozza Fiat, senza nessun rimpianto).

Il tana libera tutti scatenò stilisti e fabbriche, con accoppiate e tinte osé, sfumature, abbinamenti e miscelazioni para-originali, che servivano a distinguersi nel caos del traffico e nei parcheggi del supermercato che spodestava i negozi di prossimità offrendo, guarda caso, i parcheggi facili che in città cominciavano a latitare, tra una griffe e l’altra perché gli stilisti mettevano la firma sulle livree e sugli allestimenti.

In maniera impercettibile, nell’orgia cromatica, erano spariti paradossalmente proprio i colori classici, quelli che tutti capiscono senza dover tirare fuori un catalogo da pittore o da tappezziere per raccapezzarsi, o un vocabolario inglese. Le macchine non erano più bianche, rosse, blu, gialle, verdi: troppo semplice e troppo banale. L’aggettivo veniva vezzosamente appiccicato con l’unico scopo di distinguersi dalla concorrenza, mentre per la logica il rosso rimane sempre rosso e non è arancione scurissimo tramonto alle Fiji o eruzione del Vesuvio.

L’industria è riuscita nel capolavoro di trasformare il normale colore in optional, come se la carrozzeria potesse uscire nuda dalla catena di montaggio, con monovernice di serie, prendere o cambiare a pagamento

Il tocco letale del disorientamento è storia di oggi, col tripudio della tinta speciale su ordinazione e del metallizzato da computare a parte, rispetto a quella pastello tendente anch’essa allo speciale, con sei o sette zeri. L’industria è riuscita nel capolavoro di trasformare il normale colore in optional, come se la carrozzeria potesse uscire nuda dalla catena di montaggio, con monovernice di serie, prendere o cambiare a pagamento. Se non volevi la Toyota Yaris carta da zucchero opacizzata al sole, o la Fiat 500 L cappuccino annacquato, niente di più semplice che aggiungere una voce onerosa agli optional.

I normalissimi bianco, rosso, verde, blu, nero, grigio, diventano nel presente banchisa o madreperla, elixir, olivine, vertigo, perla, artense o platino; oppure il bianco è opalite light o polare, il rosso patagonia, il grigio alpi (standard), grafite magno e selenite, il blu solanite e il nero senza orpelli; e ancora grigio urano (senza sovrapprezzo), diversamente dal grigio moon­stone e dal bianco puro tra i pastelli, e tra i metallizzati e i perlati (tutti a pagamento) atlantic blue, deep black, dolphin grey, kings red, lapiz blue, lime yellow, reflex silver e oryx white; infine, nella carrellata, i colori che si possono scegliere senza extra, perché sembrerebbe di maramaldeggiare con listini di oltre 60.000 euro: nero essence, blue mineral o gravity, platinum graphite, snow white pearl o clear, aurora black pearl, silky silver, runa red, steel gray.

I marchi automobilistici sul mercato italiano sono poco meno di cento, i colori un migliaio. Henry Ford, profeta del nero sempre e comunque, sarebbe impazzito in questo caleidoscopio: lui che si fermava con ammirazione davanti al rosso tiziano e al verde veronese (e davanti a una rossa Alfa Romeo si levava pure il cappello), non osò mai proporli al pubblico americano, notoriamente di bocca buona e con gusti estetici che avrebbero fatto impallidire Lord Brummel.

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