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8 maggio 2024
di Lidia Lombardi

Archeologia agricola

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Sottoterra. Riemergono non soltanto colonne, capitelli, statue, mosaici, pitture, monete, utensili. Tornano alla luce, dopo almeno duemila anni, resti alimentari: lische di pesce, ossa animali da arrosti sgranocchiati sui triclini, semi di frutti, indizi di garum, di mosto, di miele, e acini d’uva e noccioli di pesca, albicocca, ciliegia. Il sottosuolo della Caput Mundi, scavo dopo scavo, restituisce resti di ciò che imbandiva le tavole e che veniva coltivato. Sicché è possibile una mappa di archeologia agricola, di usanze culinarie: dalla Domus Tiberiana del Palatino al Carcere Mamertino, i nuovi allestimenti di siti antichi squadernano anche questi materiali accanto a marmi, tufi, vetri, oggetti in terracotta, rame, argento, oro.

I ritrovamenti derivano non solo da campagne di scavo programmate dalle sovrintendenze. Si palesano a sorpresa in cantieri di edilizia civile. E allora si musealizza quanto esce dal sottosuolo, in una virtuosa convivenza tra pubblico e privato. La più recente restituzione alla vista dei visitatori è dislocata in un austero edificio di via delle Botteghe Oscure, precisamente al numero civico 46, di fronte all’ex “Bottegone” del Pci.

 

 

Qui il palazzo chiamato Lares Permarini, edificato nel primo ventennio del Novecento per essere adibito ad uffici, è stato trasformato – operazione gestita da Finint Investments – in hotel cinque stelle della catena Radisson. E, nel corso dei lavori di ristrutturazione, sono emerse nel piano interrato vestigia di quanto c’era fin dai tempi di Roma repubblicana: una porzione della Porticus Minucia (le memorie liceali ci dicono che in latino il sostantivo, quarta declinazione, era anche femminile), ovvero del porticato quadrilatero realizzato da Marco Minucio Rufo per celebrare il suo trionfo nel 106 avanti Cristo sulla popolazione degli Scordisci, nei Balcani. Era una sorta di grande piazza quadrilatera ornata all’interno da templi e fontane dove, fino al terzo secolo dopo Cristo, avanzata età imperiale, avvenivano le frumentationes. Ovvero la distribuzione gratuita di grano alla plebe, pratica poi sostituita dalla elargizione di pane in altri luoghi della città.

 

 

Carri entravano e scaricavano il frumento, l’elargizione si valeva della protezione del colonnato. Come fosse fatto è stato permesso di ricostruirlo da un frammento esaustivo dell’alto basamento rinvenuto appunto nel cantiere per l’hotel Radisson. Sono due file di grandi blocchi in peperino di epoca imperiale (la porticus fu ricostruita da Domiziano in seguito all’incendio dell’80 dopo Cristo) che permettono di definire il confine orientale della struttura. Ed emozionano i materiali decorativi dell’alzato: larghe lastre di marmo bianco “filettate” nella parte superiore da inserti di marmi colorati, dove prevale il verde del cipollino. Ecco ancora visibili i fori realizzati per inserire le grappe di contenimento, ed ecco appena fuori della galleria una porzione di pavimento mosaicato in bianco e nero e un altro di mattoncini a spina di pesce, l’usuale opus spicatum. È da questi dettagli che gli archeologi della soprintendenza guidata da Daniela Porro hanno potuto risalire a come era fatto il posto delle frumentationes. Colonne in laterizio rivestite di stucco della zona porticata, colonne in travertino per il pronao del tempio, due delle quali restano in piedi e sono visibili a metà di via delle Botteghe Oscure. Tutto questo può essere osservato dal pubblico nella hall dell’albergo. Ci si può “affacciare” sullo scavo, protetto da vetrate. E sullo sfondo un video restituisce il manufatto del condottiero Minucio così com’era, conseguente alla ricostruzione tridimensionale.

 

 

Ma c’è un altro palazzo privato che rimanda ai frutti della terra della Roma imperiale. È, in piazza Vittorio Emanuele, la sede dell’Enpam, l’ente previdenziale dei medici. Anche in questo caso nel corso della ristrutturazione, una scoperta sensazionale: una larga porzione degli Horti Lamiani, là dove si deliziò uno degli homini novi che ruotavano attorno a Mecenate, Lucio Lamio appunto, e dove poi, restituita la zona al demanio per disposizione testamentaria del cavaliere morto nel 33 dopo Cristo, si rifugiavano per lo svago – l’otium – gli imperatori dalla dinastia Claudia a quella dei Severi. Lo scavo si è chiuso nel 2015 e la mole di reperti disseppellita è stata riorganizzata nell’affascinante Museo- Ninfeo, visitabile su prenotazione il sabato e la domenica. Il nome rimanda appunto a una delle attrazioni del giardino, il ninfeo, del quale resta uno spazio circolare dove ora guizza uno zampillo.

 

 

Un luogo di raffinate installazioni. La prova? Una bianca lastra di marmo, l’unica rimasta della pavimentazione dell’aula a cielo aperto voluta da Alessandro Severo: la chiudevano ai quattro lati mura rivestite di marmi provenienti dai più lontani luoghi dell’impero; la ornavano fontane con giochi d’acqua, aiuole fiorite delle specie esotiche e profumate d’essenze mediterranee, sculture, erme, vasi. I dignitari passeggiavano tra l’incedere di cerbiatti, pavoni, struzzi. Un Paradiso degli imperatori, a partire da Caligola, che riceveva qui gli ambasciatori come in una domus aurea ante litteram, colma di meraviglie. Si tenevano ludi di fiere, al pari che al Colosseo, lì per il popolo qui per gli altolocati ospiti: nelle gabbie erano rinchiusi orsi e leoni, dei quali si sono trovati ossa e denti. Si banchettava con stoviglie eleganti, coppe di vetro istoriato, anfore legate ai commerci di spezie, olio, nettari.

Di lusso parlano i monili – anelli, orecchini, pendenti, pietre preziose, avori istoriati, oltre a pentole, stoviglie – tratti dai 30 mila metri cubi di terra movimentati. E tra il milione di reperti i tremila esposti in bacheche e cassetti mostrano tra l’altro sementi di provenienza mediorientale, gusci di ostriche, resti di specie arboree e orticole. Perfino rottami di vetro, dalle lastre – una particolare lavorazione sviluppata in Siria – che Caligola volle alle finestre, al posto dell’alabastro, perché la luce del sole entrasse senza filtri. Lo racconta Filone Alessandrino nella “Legatio ad Gaium”: dunque Caligola passeggiava negli ex Horti Lamiani con alcuni ambasciatori quando “prima si precipitò di corsa nella sala grande, ne fece il giro e ordinò che le finestre tutto intorno venissero restaurate con materiale trasparente come il vetro bianco…”.

 

Altri interventi strutturali furono ordinati dal successore, Claudio, che dispose fosse rifatto l’impianto idrico: e infatti ecco una tubatura con impresso il suo nome. Della vita quotidiana, delle merci, dei porti e dei trasporti raccontano anche i frammenti di materiali gettati nel canale drenante sotto il manto erboso. Mentre teche espongono i marmi estratti dalle terre di tutto il mondo allora conosciuto:  il giallo antico della Numidia, il serpentino e il rosso antico della Grecia, il granito, il pavonazzetto, il broccatello di Spagna, il cipollino dell’Eubea...

Del cammino dei pellegrini rivela la latrina del IX secolo addossata al muro severiano perché reca incisa una scritta in caratteri runici. Dei giardini pensili e dei camminamenti tra i viali parla un tratto di scalea in marmo. E delle trasformazioni dell’area verde dal I secolo avanti Cristo al V/VI dopo Cristo raccontano testi e resti botanici: non solo la natura coltivata all’interno dell’aula imperiale en plein air, ma quella lasciata alla condizione spontanea fuori dal recinto. Così la residenza dei regnanti si proponeva come urbana e al tempo stesso di campagna. I grandi pannelli illustrano – con uno stile che richiama la grazia floreale del liberty – personaggi a passeggio in questo Eden. I visitatori sognano quell’hortus conclusus antico-romano mentre fuori, oltre una metaforica siepe, romba il traffico convulso della città.

 

 

 

 

 

 

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