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29 novembre 2023
di Marco Patricelli

Tutti i viaggi finiscono a casa

Jan Brueghel Il Vecchio e Peter Paul Rubens, "Il Giardino dell'Eden con il peccato originale", 1615, Museo Mauritshuis, L'Aia
Jan Brueghel Il Vecchio e Peter Paul Rubens, "Il Giardino dell'Eden con il peccato originale", 1615, Museo Mauritshuis, L'Aia
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La casa ideale, senza classi energetiche, senza bollette da pagare e perfettamente modulare, zero burocrazia, condominio inesistente, trasporti e servizi garantiti, era progettata e concepita per due sole persone. Si chiamava Eden, e aveva una sola regola. Una semplice mela proibita fece sfrattare l’uomo (e la donna) costringendo Adamo ed Eva a cercarsi e a costruirsi un altro tetto, a fare i conti col caldo e col freddo, con la pioggia e col vento, a riportare la pagnotta col sudore della fronte e a partorire con dolore. La casa, per tutte le civiltà, è luogo fisico e luogo dell’anima, meta da raggiungere e da ritrovare, da costruire e da abbattere, da ideare e da ridisegnare.

Abbandonate le caverne, le palafitte e le capanne, la famiglia, il clan, la tribù, i popoli hanno avuto bisogno di delimitare gli spazi di vita individuale e collettiva aggregando le persone, chiudendosi per difendere e aprendosi per espandere. In legno, pietra, mattoni, cemento armato, passando dalla terra cruda e paglia e dal vetro e l’acciaio, la casa è elemento materiale ed elemento umano, è serialità e individualità. Non solo architettura e stile, ma anche letteratura e arte, praticità coniugata al bello e spiritualità che si sposa all’identità. A ogni epoca la sua casa e una casa per ogni epoca da quando la stanzialità ha soppiantato il nomadismo e il viaggio si è sfrondato dalla necessità di sopravvivere e di lottare contro l’ostilità degli elementi e della Natura.

Ulisse viaggia dieci anni per tornare a casa, l’odissea corporea e interiore, appunto, e lì ritrovare gli affetti, il calore, la fedeltà, sia essa del cane Argo che conserva per questo momento l’ultima stilla di vita sia della moglie Penelope e del figlio Telemaco che resistono ai Proci che bivaccano nella loro casa. Il nostos inteso come processo di crescita e di apprendimento, ma anche di capacità di affrontare e vincere le difficoltà in nome di un bene supremo che è quello della dimensione domestica.

Nel Pentateuco gli ebrei che vanno via dall’Egitto con l’esodo vanno alla ricerca di loro stessi e dell’identità di popolo nella loro terra e nelle case custodi mute della memoria di un popolo. È l’unico ritorno narrato dalla Bibbia, per di più in una casa da cui il viaggio non inizia e neppure si conclude. Nella sfera domestica la romanità coltivava gli antiqui mores e quindi il proprio senso di appartenenza, con il culto degli antichi e delle divinità (Lari e Penati), con il diritto potestativo esercitato dal paterfamilias, con i rapporti di sangue che cementavano le gentes che costituivano le tre tribù romulee dei Tities, Ramnes e Luceres destinate a dominare il mondo conosciuto. Il fuoco che ardeva nella domus era l’immagine che per secoli illuminava la civiltà romana e il fuoco del tempio di Vesta custodito dalle vergini consacrate alla Dea è la fiamma della casa di Roma.

Ancora oggi, con volo poetico, la casa è detta focolare domestico. Il “caldo buono” e le “capriole di fumo del focolare” sono il Natale di Giuseppe Ungaretti, mentre per Cesare Pavese il ritorno a casa è l’impatto con una memoria che si riteneva fissata nella pietra e che invece non c’è più. Ne “La luna e i falò” Anguilla si ritrova davanti a un mondo scomparso, coltivato nel cuore e slabbrato e dissolto dal tempo: ne resta la sola trasfigurazione nutrita dalla lontananza, il sogno idealizzato che svapora all’alba della vita reale. Ancora prima, ne “I Malavoglia” di Giovanni Verga, padron ‘Ntoni vorrebbe spegnersi nella sua casa, alfa e omega della sua esistenza, e non in un anonimo letto di ospedale. Nelle case si nasceva e si moriva: il ritorno nella “casa del Padre”, appunto. Anche in Luigi Pirandello l’esclusione dalla casa è una cesura della vita, comunque traumatica; ne “L’esclusa” e nel “Fu Mattia Pascal” diviene archetipo dell’impossibilità di riallacciare radici ormai recise.

La casa è quella sognata a colori dagli alpini nella tragedia bianca della ritirata di Russia, il ritorno “a baita” de “Il sergente nella neve” di Mario Rigoni Stern; e quella dei soldati italiani dopo l’8 settembre 1943, la data del “tutti a casa”, la pace dopo la guerra nell’inconsapevolezza che di guerra ne era già scoppiata un’altra, quella civile. “La tregua” di Primo Levi ha come meta la casa dello sradicamento violento per la Shoah, ma ci si torna col fardello greve e per lui insuperabile della memoria del sopravvissuto ad Auschwitz. La casa è la costante nostalgica nella narrazione soggettiva dell’emigrazione nell’Ottocento e nel Novecento, il luogo mitizzato da chi aveva lasciato una vita miserabile eppure ne rimpiange i punti cardinali certi che avevano come bussola proprio l’abitazione nel paese, quella da rimettere su e riaprire in caso di ritorno col timbro di chi ce l’aveva fatta, o quella che rimaneva fissa nelle immagini della mente mentre veniva corrosa dalle erbacce e dal tempo nella fissità della chiusura. La casa esprime le radici, quell’insieme geniale di pezzi e cubature è delizia ma anche croce, è materialismo e  spiritualità, è spazio ed è tempo. Soprattutto tempo. Quello trascorso, quello da trascorrere, quello da rivivere nelle stagioni della vita attraverso uno scenario che non è un mero contenitore.

La “Casa del felice ritorno” di Leena Lander è la terra promessa di approdo dell’anima tormentata che cerca di riconciliarsi con la vita. È un posto imbevuto di ricordi quello che Lucio Battisti e Mogol consegnano musica e parole ai Dik Dik con “Vendo casa”, è un microcosmo a misura di coppia nel “Soli” di Adriano Celentano, per trovarsi e ritrovarsi senza interferenze del mondo esterno, è il mondo dell’infanzia secondo Vinicius de Moraes e Sergio Bardotti trasfigurato in chiave di filastrocca surreale con la voce di Sergio Endrigo perché è un non-luogo: carina ma senza soffitto, senza cucina, persino senza vasino, eppure “bella, bella davvero”.

Camera e salotto diedero nome a due specifici stili musicali e compositivi ottocenteschi, la musica da camera, appunto, e la romanza da salotto, la prima più intimista e la seconda più estroversa che origina il récital concertistico: dal dilettantismo di suonare insieme al virtuosismo solistico passando dalle svenevolezze e dalle civetterie delle fanciulle di buona famiglia da maritare. Poi arrivò il grammofono, poi la radio, i gusti cambiarono, e adesso i media si sprecano e nell’era dei social la musica si ascolta da soli in cuffia.

Paradossi della contemporaneità. Nel lockdown della pandemia di Covid-19 la casa è stata rifugio sicuro dal nemico invisibile e letale e nello stesso tempo prigione materiale di una socialità sfarinata a forza e compressa nella coabitazione. Quella di cui liberarsi nel ritorno alla normalità, ma anche quella di cui si è apprezzata la dimensione, l’approdo sicuro per ogni avventura della vita, di un giorno o di un’epoca. Perché, come dice un proverbio della Lettonia, tutti  i viaggi finiscono a casa.

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