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4 dicembre 2025
di Guendalina Dainelli

Ali di falco, perle, grani di sabbia

Zayed Museum Abu Dhabi
Zayed Museum Abu Dhabi
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Abu Dhabi, 3 dicembre 2025 - Prima di tutto è un simbolo. Di potere, orgoglio, ricchezza. Simbolo di un Paese, nato appena 54 anni fa, e già una delle più grandi economie mondiali. Lo Zayed National Museum di Abu Dhabi, progettato dallo studio britannico Foster+Partners, ha definitivamente spiegato le sue ali di falco (l’uccello a cui la struttura è ispirata) e si impone sullo skyline della capitale emiratina con il magnetismo di un'architettura al tempo stesso futuristica e ancestrale.

A dire il vero, osservata dal ponte ad arco che la collega alla terraferma, l’intera geometria dell’isola di Saadiyat ha qualcosa di surreale. La cupola del Louvre Abu Dhabi, i cubi maestosi dell’Abrahamic Family House, i coni asimmetrici dell’atteso Guggenheim Museum, le forme ellittiche del museo nazionale dedicato al Padre della Patria Zayed, appena inaugurato, per finire con lo slancio orizzontale delle branded residences. Appartamenti e penthouse di marca, come Nobu o Saint Regis, che si affacciano sulle acque turchesi del Saadiyat Cultural District, con la promessa mantenuta di una vita a cinque stelle.

Immacolato come una candura emiratina, audace come un falcone (che rappresenta il paese e la millenaria tradizione della falconeria), il museo è prima di tutto un compendio di tecniche architettoniche e costruttive locali. L’uso sapiente delle ombre per modulare la forza abbacinante della luce, il grande “tumulo” seminterrato degli ambienti per combattere le temperature torride, le cinque torri a forma di ala d'uccello che sovrastano la base, i pannelli sfalsati che orchestrano il ciclo dell’aria. Viene da pensare ai barjeel, le caratteristiche torri del vento arabe. Tanti elementi del museo, in effetti, suggeriscono il gioco dell’architetto, Lord Norman Foster, con le più antiche tradizioni di costruzione del Golfo. Al Masar Garden, il giardino d'ingresso, cita ad esempio il paesaggio locale, tra oasi, deserto e piante autoctone. E c'è anche un sistema di irrigazione "falaj" tipicamente emiratino e omanita, che sfrutta le tecniche di gravità.

Nelle sei gallerie tematiche permanenti, la narrazione del museo copre il compasso storico degli Emirati Arabi Uniti, da un primo utensile in pietra di 300.000 anni fa rinvenuto a Jebel Hafit nei pressi della località di Al Ain, fino alle tradizioni ancora vive della popolazione, con molti punti di intersezione globale. Particolarmente interessante la galleria "By Our Coasts" che si concentra sullo sviluppo dei principali insediamenti costieri, dall’Iraq al Pakistan, attraverso la raccolta delle perle, la pesca, il commercio di ceramiche e manufatti. Trovano spazio anche i ritrovamenti di reperti romani e chiese cristiane sull’isola di Sir Bani Yas e le testimonianze archeologiche di rotte molto lunghe che arrivavano fino al sud della Cina già nei tempi antichi. Un percorso museale che davvero pare accompagnare il visitatore sulle caratteristiche imbarcazioni del Golfo, con oltre 1.500 pezzi, esperienze multisensoriali e audiovisive, oltre a installazioni contemporanee.

Tra geografia, storia, lingua araba, arte e cultura, la tappa finale è quella della galleria "To Our Roots", che esamina anche le pratiche di sopravvivenza nelle condizioni estreme dell’interno del Paese. Una vita spesso poverissima, legata all'allevamento di cammelli, fatta di accampamenti nelle tende e di un nomadismo basato sul codice non scritto della legge del deserto. Come quella del mare, impone di offrire soccorso e ospitalità a chi è in difficoltà. Non è un caso, forse, che gli Emirati Arabi oggi siano anche un grande laboratorio di globalizzazione: circa 10 milioni di abitanti di cui il 90% circa è costituito da espatriati di ogni parte del mondo. Ambizioso, audace, visionario. Il museo assomiglia al Paese, a cavallo tra passato e futuro, tra identità e culture lontane.

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