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7 giugno 2022
di Ivana Pisciotta

'Alta sarturia'

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Quando invito qualcuno a cena che non è napoletano e preannuncio un sartù, mi guarda con aria interrogativa. Solo chi conosce la cucina partenopea infatti ne apprezza la novità, anche perché non è un piatto che si prepara all’istante. “Sua Maestà”, come scherzosamente qualcuno lo chiama, viene realizzato spesso durante le feste, visto che se ne ricavano tante porzioni per i vari commensali; è anche sontuoso e scenografico e generalmente va cotto in forno in uno stampo per ciambella per fargli assumere una bella forma ad anello. E anche se la preparazione è lunga ed elaborata ne vale davvero la pena, perché è molto prelibato. Tra i napoletani doc, c’è chi sostiene che sia ancora più buono il giorno dopo: quindi niente paura se non lo si mangia tutto subito.

Una lezione di Alta Sarturia

Ma facciamo prima un salto nella tradizione. Innanzitutto, il nome di questo ghiotto timballo risale alla notte dei tempi: non è, come potrebbe sembrare, un vezzeggiativo o un diminutivo ma ha un’origine etimologica molto lontana nel tempo. Deriva dall'espressione francese “sur tout”, che indica un indumento in grado di "coprire tutto", come un soprabito o un mantello, e questo nome venne storpiato dal dialetto napoletano, che trasformò la u in a.  

Fece capolino nel Settecento quando i cuochi francesi che lavoravano presso le case nobiliari e presso la Corte, inventarono questo piatto a base di riso, aggiungendo il pomodoro ad un ripieno ricco a base di carne, uova, piselli. Ma ci volle tempo perché il sartù entrasse nelle grazie dei napoletani che all’epoca erano amanti della pasta – soprattutto dei “maccarruni” - e snobbavano il riso, perché lo consideravano un alimento povero e per niente adatto a essere cucinato in preparazioni succulente.

Erano già due secoli che il cereale era approdato in Italia: arrivò per la prima volta nella città partenopea alla fine del XIV secolo, dalla Spagna, nelle stive delle navi degli Aragonesi. Guardato con sospetto dai nobili napoletani, veniva utilizzato soprattutto come medicamento: i dottori salernitani lo prescrivevano in bianco in caso di malattie intestinali o gastriche, che erano assai diffuse dal momento che in quel periodo imperversavano parecchie epidemie, in primis quella del colera.

Dal Sud venne importato al Nord Italia, dove iniziò a essere coltivato. Gli storici narrano che quando Ferdinando di Borbone, re delle due Sicilie, detto anche il re Lazzarone, sposò Maria Carolina d’Austria, per volontà della regina che non amava la cucina partenopea giudicata troppo ripetitiva, chiamò a corte i più raffinati cuochi francesi:si chiamavano Monsù (dal francese “monsieur”) che poi il dialetto napoletano storpiò in “Morzù”.

Un bel giorno, questi cuochi che sapevano dell’avversione dei napoletani per il riso, decisero di proporlo in modo più gustoso aggiungendo ‘‘a pummarola’, ossia il sugo di pomodoro, piselli, uova sode, fior di latte, polpettine e salsicce e camuffando tutti questi ingredienti all’interno di un timballo ricoperto da un mantello di pangrattato. Si presentarono così a Corte sfoggiando il nuovo piatto.

Leggenda vuole che il re volle assaggiarlo e lo trovò così gustoso da richiederlo più volte. Alla fine, la fama del sartù si diffuse ben presto, consentendogli di entrare a pieno titolo nella tradizione culinaria del Regno. Con il passare del tempo, vennero sperimentate due versioni: una bianca (con la besciamella al posto del sugo) e una rossa, mentre il ripieno può variare a seconda dei gusti. La base è ovviamente di riso, che va scolato al dente.

E siccome ogni famiglia napoletana ha la sua personale ricetta (che rivendica come quella “autentica”, ma vattelapesca quale è), io vi dico la mia. Vi assicuro che il risultato è spettacolare, da leccarvi letteralmente i baffi. 

Il segreto, tramandato da generazioni, è quello di mantecare il riso con molta salsa: anche qui, con i soliti distinguo. Ad esempio, mia nonna e mia madre preferivano al semplice sugo di pomodoro il ragù di carne tipo bolognese, ossia con la carne macinata. Al posto del fiordilatte previsto dalla ricetta base, mettevano nel ripieno la provola, altro ingrediente molto gettonato nella cucina napoletana. 

Si sono poi sempre raccomandate di innaffiare il ripieno con molto parmigiano grattugiato, e di essere parsimoniosi con il sale perché il ripieno è già di per se’ gustoso.

Altra ‘dritta’: usare il riso Carnaroli e, prima di servire, aspettare almeno 4-5 ore sennò si sgretola! Io faccio così: preparo prima il ragù (nella versione alla bolognese, per ubbidire alla mamma!), la cui preparazione è semplice. Si fa un po’ di soffritto con mezza carota, mezza cipolla e una costa di sedano (tritati finemente), poi si fa rosolare sul fuoco 600-700 grammi di carne macinata. Attenzione: la carne deve essere ben cotta. 

Nella pentola va poi fatto evaporare mezzo bicchiere di vino rosso, o meglio ancora di brandy, si mette un pizzico di sale, e qualche spezia, a proprio gusto: io preferisco un paio di chiodi di garofano, 2 o 3 foglie di salvia e un rametto di rosmarino. Quando la carne è pronta, aggiungo circa due bottiglie di passata di pomodoro, e lascio andare sul fuoco per venti minuti.

A quel punto, qualche foglia di basilico e, voila’, il ragù è pronto. Cuocio poi il riso (500 g) e quando è cotto, lo condisco con abbondante sugo ma ne lascio un po’ per la “coperta”. Nello stampo a ciambella - che per essere precisi, in napoletano si chiama “ruoto” (richiamando la sua forma) – ci va un’abbondante spruzzata di pangrattato misto al parmigiano grattugiato, e un paio di mestoli di sugo. Una variante: c’è chi lo ricopre con alcune fette di prosciutto cotto (a me personalmente non piace).

Nel “ruoto” si adagia uno strato di riso precedentemente condito e poi lo strato di ripieno composto da: pezzi di provola, pisellini primavera surgelati, dadini di prosciutto cotto, polpettine e tre uova sode fatte a pezzi. A proposito: le polpettine vanno preparate a parte. In una ciotola, si fa un impasto con 200 grammi di carne macinata, parmigiano grattugiato a volontà, un pizzico di prezzemolo tritato, un uovo, sale e pepe e poi si fanno tante polpettine friggendole nell’olio di arachide.

Torniamo al sartù: finito il ripieno, lo si ricopre con un altro strato di riso, e a quel punto si mette altro sugo. Quindi il “ruoto” va in forno statico ben caldo a 180 gradi per 40 minuti. D’obbligo la prova stecchino!

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