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2 gennaio 2023
di Marco Patricelli

CantaStoria. Noi e Sanremo

Domenico Modugno
Domenico Modugno
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Sanremo, tutta una parola, in Paradiso a dispetto del Santo. E basta davvero la parola: sette lettere come le sette note, mentre Festival ne ha una più, otto come la scala musicale. Un destino scritto sul pentagramma, per la città dei fiori, a partire dal 1951: fenomeno di costume e sociale, espressione di un’Italia che ha attraversato le fasi storiche della rinascita postbellica nel segno dell’ottimismo e proiettata di slancio verso il boom, poi ancora ripiegata nella contestazione e negli anni di piombo, avvitata nella crisi e disincantata nell’edonismo reaganiano in salsa tricolore, nell’illusione delle magnifiche sorti e progressive fino alla disillusione della frenata economica, della pandemia da Covid-19 e delle pesanti ricadute della globalizzazione e della guerra in Ucraina.

Fenomeno di costume e sociale, espressione di un’Italia che ha attraversato le fasi storiche della rinascita postbellica nel segno dell’ottimismo e proiettata di slancio verso il boom

Ma il Festival di Sanremo è sempre lì, uguale e diverso, polo attrattivo plurigenerazionale, tra i tanti alti e qualche basso, a scandire tra lustrini e colori le stagioni in chiaroscuro di un Paese che ha inventato la musica, la lirica, il Belcanto e le canzonette e passa disinvoltamente di genere in genere, per pensare un po’ di più o per non pensare affatto. La manifestazione dei numeri record ha cambiato più volte pelle, rigenerandosi e desquamandosi, ora anticipando ora rincorrendo le mode, in una corsa a volte affannosa verso l’aggiornamento di se stessa, non potendo sempre rispecchiare la realtà ma riuscendo quasi sempre a interpretarla nel bene e nel male.

L’edizione 2023 fa calare il poker ad Amedeo Umberto Rita Sebastiani che ha sforbiciato tre quarti di anagrafe e si è dato una patina di modernità col classicissimo nome d’arte Amadeus: omaggio mozartiano (che però si firmava Amadé o Amedeo in italiano) tanto per far capire che qualche ambizione ce l’aveva eccome, più che un vezzoso latinismo. Virtuoso delle consoles delle discoteche già dagli anni Ottanta, quelli da bere, da dj giovanilista è maturato rinverdendo come apprezzato conduttore televisivo di successo e ha messo l’impronta del fuoriclasse nella direzione artistica del Festival della canzone per eccellenza. Ha sgranato i nomi dei selezionati per la gara di febbraio come se proclamasse i nomi dei premi Nobel e ha colpito nel segno scegliendo la platea dell’edizione delle 13.30 del Tg1 del 4 dicembre, incassando oltre allo share una raffica di più di 80.000 tweet. Segno dei tempi. Oltre la tv di allora e quella che verrà a febbraio, Sanremo è un evento che si alimenta con i linguaggi della modernità e vive oltre le serate che rappresentano allo stesso tempo l’approdo e il trampolino di lancio di tutta la macchina mediatica che ali- menta e drena.

L’edizione 2023 fa calare il poker ad Amedeo Umberto Rita Sebastiani che ha sforbiciato tre quarti di anagrafe e si è dato una patina di modernità col classicissimo nome d’arte Amadeus: omaggio mozartiano, tanto per far capire che qualche ambizione ce l’aveva eccome, più che un vezzoso latinismo

Eppure il Festival nasce da un lato per la tradizione, dall’altro oltre la tradizione. L’Italia del secondo dopoguerra voleva vol- tare pagina, non poteva più accontentarsi dei fermenti forse anacronistici della canzone dialettale che pure aveva dei picchi di notorietà che ne avevano fatto dei veri e propri manifesti ar- tistici nazionali. “’O sole mio” era ancora una specie di inno dell’Italia d’esportazione, almeno fino a quando Domenico Modugno non insegnerà al mondo a “Volare” nel blu dipinto di blu, proprio dal palco di Sanremo.

La prima edizione del 1951 fiorisce su un’iniziativa nata in Versilia nel 1949 e trapiantata sulla riviera ligure di proposito fuori stagione, in inverno, con la finalità di creare un polo d’attrazione piuttosto che amplificare un’attrazione che c’era già. Accadeva già con il ciclismo per la classica Milano-Sanremo accesa dall’eterno dualismo tra Fausto Coppi (trionfatore nelle edizioni 1946, 1948 e 1949) e Gino Bartali (1947 e 1950), e la portata di coinvolgimento della corsa faceva riaprire tutti i locali per accogliere migliaia di persone e la ricca borghesia che poteva permettersi sia le vacanze sia le trasferte per coltivare la passione sportiva.

La prima edizione del 1951 fiorisce su un’iniziativa nata in Versilia nel 1949 e trapiantata sulla riviera ligure di proposito fuori stagione, in inverno, con la finalità di creare un polo d’attrazione piuttosto che amplificare un’attrazione che c’era già.

La formula prescelta per il Festival, con la conduzione di Nunzio Filogamo che con la radio si rivolgeva agli “amici vicini e lontani”, da subito mostra i suoi limiti. Il primo, lo scarso numero di concorrenti, solo tre: Nilla Pizzi (vincitrice con “Grazie dei fior”), il Duo Fasano e Achille Togliani, impegnati in 20 brani inediti. Il secondo riguarda il pubblico, seduto ai tavolini dove si cena e si parlotta durante le esecuzioni, persino con un certo snobismo derivante dall’abitudine a eventi di profilo culturale ritenuto più alto. Le canzoni, però, colpiscono nel segno: melodismo collaudato e accattivante, testi semplici e facili da memorizzare, e gli italiani cominciano a canticchiare i motivetti oltre che a parlare della manifestazione. E Il passaparola funziona.

L’anno seguente i concorrenti sono cinque, ma a vincere è ancora Nilla Pizzi con “Vola colomba vola” (in cui si volle vedere la nostalgia di Trieste ancora fuori dai confini nazionali), classificatasi anche seconda con “Papaveri e papere” (indiziata di essere una presa in giro dei notabili politici) e terza con “Una donna prega”: caso unico nella storia del Festival. Mentre Sanremo introduce l’anno seguente la doppia orchestra con Cinico Angelini e Armando Trovajoli, la televisione irrompe nella quinta edizione, addirittura con la finale in Eurovisione. Il clima di ottimismo e di buonismo datato e melenso viene spazzato via nel 1958 con un gesto rivoluzionario, le braccia spalancate, e l’energia straripante di una canzone fuori dagli schemi, “Nel blu dipinto di blu”. È l’anno di Modugno che diventa nel mondo “Mister Volare” oscurando il dioscuro Johnny Dorelli che pure canta in coppia con lui.

L’anno seguente i concorrenti sono cinque, ma a vincere è ancora Nilla Pizzi con “Vola colomba vola” (in cui si volle vedere la nostalgia di Trieste ancora fuori dai confini nazionali), classificatasi anche seconda con “Papaveri e papere” (indiziata di essere una presa in giro dei notabili politici) e terza con “Una donna prega”: caso unico nella storia del Festival.

La polvere della tradizione viene macinata dagli anni ruggenti dell’arrembante crescita economica: cambiavano le mode, il rock affiancava il pop nello scantonare il folk e un melodismo zuccheroso. Negli anni ’60 i giovani hanno un’altra visione del mondo: la cantavano e le cantavano ai “matusa”. Arrivavano gli “urlatori”. Un Adriano Celentano tarantolato si presenta con scandalo spalle al pubblico e in seguito subirà lui lo sgarbo di veder subito scartato “Il ragazzo della via Gluck”; la scandalosa e talentuosa Mina fa galleggiare in aria “Mille bolle blu” ma già nel 1961 chiude ogni rapporto con Sanremo; Antonio Ciacci rielabora all’impatto l’immagine di Elvis col nome di Little Tony. Il cantautorato è dietro l’angolo, con i contenuti in versi liberi o in rima, grazie a Lucio Dalla (terzo nel 1971 con 4/3/43), o a Luigi Tenco che nel 1967 non regge all’esclusione del piccolo capolavoro “Ciao amore ciao” cantato in coppia con Dalida e si tira un colpo di pistola in albergo, “atto di protesta contro un pubblico che manda ‘Io, tu e le rose’ in finale” come scrive nell’ultimo biglietto.

Rivelazioni e sempreverdi, linguaggi e contenuti diversi, con la presunzione di esser la vetrina della canzone italiana, mentre forse è la vetrina delle canzoni in italiano, Sanremo romba sulle piste dello spettacolo pretendendo sempre la pole position. Sedici edizioni sono decise e disegnate dal patron per antonomasia Gianni Ravera. Un volpone che all’anagrafe faceva Stalin, ma durante il Ventennio i genitori erano stati costretti a optare per un nome “normale”, Giandomenico; ma gli era rimasto attaccato lo spirito dell’uomo solo al comando (solo due volte dovette giocoforza accettare la condirezione) ed è lui a portare a Sanremo Louis Armstrong e Steve Wonder, a capire la caratura di Iva Zanicchi (record woman: tre vittorie, nessuna come lei, e dieci partecipazioni), a lanciare la sedicenne Gigliola Cinquetti che nel 1964 davvero non aveva l’età, a scoprire il ragazzo di oggi Eros Ramazzotti, che trionfa nel 1986 a due anni dalla vittoria tra le nuove proposte, e a individuare il talento di Zucchero Fornaciari, che invece viene liquidato penultimo nel 1982, nel 1985 e nel 1986, ma è artefice di una strepitosa carriera. D’altronde un futuro superbig da megastadi esauriti come Vasco Rossi, già ultimo nel 1982, nel 1983 per polemica se ne va prima della fine della sua canzone rivelando l’uso del playback. Nel 1989 Jovanotti, della scuderia Cecchetto, è quinto nella sezione Campioni con la scaciolata pop rap “Vasco”. Sappiamo quello che è diventato.

Il Festival dal 1977 era traslocato dal Casinò al Teatro Ariston, che almeno nel nome ambiva davvero a ospitare i migliori, nuovo tempio di uno spettacolo musicale sincopato sui tempi che stavano cambiando. Le tinte della società viravano allo scuro ma intanto la tv era a colori. Le case discografiche due anni prima avevano boicottato il Festival e impedito ai big sotto contratto di partecipare (lo ripeteranno nel 2004, man- dando sul palcoscenico nomi sconosciuti ai più).

Le tinte della società viravano allo scuro ma intanto la tv era a colori. Le case discografiche due anni prima avevano boicottato il Festival e impedito ai big sotto contratto di partecipare, lo ripeteranno nel 2004, man- dando sul palcoscenico nomi sconosciuti ai più

Rino Gaetano scuote i perbenisti con l’ammiccante “Gianna” con cui sdogana la parola sesso, una debuttante Anna Oxa, sempre nel 1978, ne vellica le pruderie con un look punk androgino, ma con “Un’emozione da poco” mette tutti d’accordo pur senza vincere (il primo posto va ai Matia Bazar, lei ci riuscirà solo nel 1999, a 39 anni). Mike Bongiorno come conduttore (undici edizioni dal 1963 al 1997) se la batte col rivale Pippo Baudo, presentatore per eccellenza della tv italiana a sfondo musicale, col bonus di conoscere l’arte delle sette note, suonare bene il pianoforte e scrivere testi di sigle e canzonette non irresistibili ma comunque di successo, che firma ben tredici edizioni dal 1968 al 2008, comprese quelle più “nazionalpopolari” (come si autodefinisce in diretta in aperta polemica con la Rai).

Negli anni ’80, comunque, sono frequenti le iniezioni di internazionalità, ma non più come quando nel 1968 un nume sacro del jazz come Louis Armstrong era stato chiamato a interpretare in italiano “Mi va di cantare” e Pippo Baudo gli aveva tagliato i tempi perché gli andava – o aveva capito che doveva farlo – di tenere un récital: gli ospiti sono le punte di lancia dello star system, espressioni dei successi che rimbalzano su radio e tv, che costano ma rendono in termini di pubblico e di introiti pubblicitari (Ray Charles, Dee Dee Bridgewater, Elton John, Simply Red). E se i Queen con Freddie Mercury non nascondono il fastidio di dover cantare in playback (il primo a farlo era stato Bobby Solo nel 1963, ma perché colpito da una fastidiosa raucedine), se l’esperienza nella gestione Adriano Aragozzini non più ripetuta della conduzione imbarazzante affidata a quattro spaesati figli d’arte (Rosita Celentano, Paola Dominguin, Danny Queen e Gianmarco Tognazzi nel 1989), il microfono sanremese diventa preda ambita per i comici come l’incontenibile Roberto Benigni (1980), il Trio delle meraviglie Lopez-Solenghi-Marchesini, e pure Beppe Grillo, quando di stella gliene bastava una sola e le altre quattro si accenderanno molto dopo l’esilio temporaneo dalla Rai per una battuta sui socialisti manolesta in trasferta a Pechino. Di tanto in tanto, come nel 1987, formule estemporanee si dimostrano vincenti, come il trio formato da Gianni Morandi, Enrico Ruggeri e Umberto Tozzi che danno tutto cantando “Si può dare di più” e prendendosi il primo posto in condominio. Il “reuccio” Claudio Villa (45 milioni di dischi venduti in carriera), vincitore nel 1955, 1957, 1962 e 1967, partecipa l’ultima volta nel 1986: rappresenta un mondo che non esiste più, ma si prende l’applauso più commosso quando Baudo il 7 febbraio ne annuncia l’improvvisa morte proprio durante il Festival.

Lo scandalo vero, presunto, artefatto o voluto, a Sanremo è come la ciliegina di una torta millefoglie che ne ha disperatamente bisogno per essere assaporata. La spallina birichina scivolata a Patsy Kensit nell’87 era roba da educande rispetto alla “farfallina” volata via per un solo galeotto attimo dal megaspacco della sfolgorante Belen Rodriguez

Lo scandalo vero, presunto, artefatto o voluto, a Sanremo è come la ciliegina di una torta millefoglie che ne ha disperatamente bisogno per essere assaporata. La spallina birichina scivolata a Patsy Kensit nell’87 era roba da educande rispetto alla “farfallina” volata via per un solo galeotto attimo dal megaspacco della sfolgorante Belen Rodriguez in discesa sulla mitica scalinata nel 2002 da autentica femme fatale (e desiderio proi- bito di qualche milione di italiani, numero accresciuto dopo quello show). Il ricordo del pancione finto di Loredana Bertè esibito nel 1986 non turbava già più nessuno. Ma anche Pippo Baudo fa davvero il Superpippo e nel 1985 accorre sulla balco- nata per dissuadere un disoccupato dal gettarsi in platea per protesta, con una genuinità dubbia e 17 milioni di spettatori. Il dimenticato Franco Fanigliulo era stato censurato nel 1979 perché la sua “A me mi piace vivere alla grande” ammiccava alla cocaina. L’abbinamento alle schedine del Totip (1984) innesca le dichiarazioni di Pupo (nel 1992) di essersi comprato il quarto posto investendo 75 milioni (di lire) in tagliandi. Un destino cinico e baro abbona Toto Cutugno alla piazza d’onore, senza mai il riconoscimento di una vittoria che fosse una a dispetto di hit planetarie. Trono condiviso col Savoia principe dei sot- taceti e ospite fisso dalla Svizzera di Fabio Fazio a “Quelli che il calcio”, che avrà un momento di gloria partecipando all’edizione 2010 (l’esilio ai maschi dell’ex Casa regnante era stato re- vocato), e incredibilmente Emanuele Filiberto arriverà secondo con la dolciastra e approssimativa “Italia amore mio” assieme a Pupo e Luca Canonici. E per stare in tempi recentissimi, Ultimo non digerì affatto la vittoria nel 2019 di Mahmood, attri- buita dalla giuria di qualità e sala stampa, ribaltando il favore popolare, mentre nell’edizione numero 70 Morgan litigò in diretta con Bugo cambiando la canzone per umiliarlo e inducen- dolo ad andarsene. Nel 2021 Amadeus ha scartato Morgan in favore proprio di Bugo, ma poteva permetterselo con l’aura dell’intoccabile.

Un fortunato tormentone, “Sanremo è sempre Sanremo”, esprime al meglio senza dire nulla cosa sia il Festival della canzone italiana, contenitore sfavillante non necessariamente pieno di contenuti, stelle e stelline, meteore e buchi neri, campioni e brocchi, trampolino di lancio e lanci nel vuoto, voci nuove e voci riciclate, canzoni indimenticabili e canzoni dimenticabili

Un fortunato tormentone, “Sanremo è sempre Sanremo”, esprime al meglio senza dire nulla cosa sia il Festival della canzone italiana, contenitore sfavillante non necessariamente pieno di contenuti (stelle e stelline, meteore e buchi neri, campioni e brocchi, trampolino di lancio e lanci nel vuoto, voci nuove e voci riciclate, canzoni indimenticabili e canzoni dimenticabili), una tradizione che molti ritengono superata e altri un carattere distintivo nel nostre essere e cantare perché siamo sempre italiani. Manifestazione amata o odiata, persino affogata nell’indifferenza formale, ma sempre dai grandi numeri. Che si sono moltiplicati con la dittatura dei social network e sui quali ha soffiato l’onda giovanilista nel nocchiero Amadeus con la saporosa insalata russa transmediale di tv, radio, streaming, play on demand, twitter, facebook, tiktok, una sala stampa vitami- nizzata e ormonizzata come neppure per lo sbarco del primo uomo sulla luna, giornalisti, domandieri, filosofi da tastiera, follower, fancazzisti e influencer a strapparsi notizie e notiziole e a speziare e salare il brodo di coltura della cultura generalista e generalizzata. Qualità e commercialità in dosi variabili, su due piatti di una bilancia ondivaga, con le case discografiche che fanno il loro gioco, comunque appuntamento fisso della cultura nazionalpopolare che si illude di essere davvero internazionale e qualche volta gli riesce pure, come con i Måneskin, tirati dal mago fuori dal cilindro rimanendo di stucco lui stesso per lo stupore.

Sia o meno una “sagra del Kitsch” come un impietoso Financial Times tacciò qualche anno fa il Festival, la Sanremo liftata, palestrata, botulinizzata e imbellettata scientificamente seduce in maniera trasversale anche gli snob che non le vanno dietro per partito preso, tra i cantanti (cantautori che la schi- favano) e tra il pubblico (non piace alla gente che piace). Amadeus, il dj col papillon, è l’artefice di uno scardinamento quasi gattopardesco della struttura festivaliera, che resta uguale come liturgia ma col taglio ubriacante e ammiccante dei tempi moderni, come se Sanremo dilatandosi e spalmandosi oltre le canoniche serate fosse diventato un lungo videoclip dai ritmi frenetici e stordenti. Forse “Sono solo canzonette”, forse è solo “Tanto per canta’”, ma l’evento no, quello è una cosa seria, costruito in laboratorio, miscelato con la cura dello speziale, dannunzianamente immaginifico e arditamente alchemico, con ogni pezzo al suo posto sulla scacchiera dello spettacolo. Chiara Ferragni si trascinerà i suoi milioni di followers, che si sommeranno a quelli delle nuove leve della canzone nate informatizzate e svezzate da Android, che se li tirano dietro a uno schiocco di dita e un tocco di display. Miele e fiele, dalla metà dei Ferragnez a Francesca Fagnani, debuttante di esperienza, con un Gianni Morandi che ha strappato la carta d’identità negli anni Sessanta, scelte tra gli artisti di qualità intrinseca, marketing e marketting, televisivo soprattutto, ma anche social. Cantanti già promossi tutti dal selezionatore-bravo presentatore al rango di “Super ospiti”, così ai nastri di partenza i 22 + 3 (scremati da 300 proposte con esclusioni non indolori) si sentono tutti partecipi dello stesso progetto, come i Cugini di campagna che potrebbero essere i nonni di Elodie e Madame, le sorelline Paola e Chiara che tornano a duettare, e via dicendo. Anzi, e via cantando. Da 73 anni di tutto di più, per come eravamo, per come siamo, per come Sa(n)remo

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