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30 ottobre 2025
di Lidia Lombardi

Così Roma inventò il cinema italiano

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Il cinema italiano nasce in un giorno preciso, il 20 settembre 1905. E nasce a Roma. Alle dieci di sera un rito grandioso e collettivo lega indissolubilmente la Capitale alla Settima Arte. A Porta Pia, su un grande schermo, viene proiettato “La presa di Roma”, sulla Breccia dei Piemontesi nel 1870 , sette quadri realizzati dallo “Stabilimento di manifattura cinematografica Albertini e Santoni”, recita una locandina incorniciata da ghirigori, tipica del muto.

E’ il primo pezzo della mostra “Roma e l’invenzione del cinema” allestita fino al 18 gennaio 2026 in una sede naturaliter cinematografica: Castel San’Angelo, nelle salette di Pio IV aperte sul camminamento circolare che si affaccia sul Tevere e sul Cupolone. Una rassegna di fotografie, documenti, filmati, spezzoni di film curata da quel grande conoscitore e affabulatore del cinema che è Gianluca Farinelli, direttore della Cineteca di Bologna, dalla quale provengono rarità in mostra, insieme con quelle uscite dall’Istituto Luce, da Cinecittà.

Una rassegna impaginata come un racconto dell’immaginario collettivo sulla favola del cinema, sul cammino verso la modernità, perché gli anni presi in considerazione sono grondanti di avvenimenti: dal 1905, si diceva, al 1960: ovvero le due guerre, il colonialismo, il fascismo, il dopoguerra, il boom. Tutto su un set presto diventato internazionale: Roma. Capace di inventare due must che poi Hollywood ci copierà: i peplum, ovvero i films (sì, si diceva films in quegli anni lontani) in costume antico romano, come Quo Vadis?; e il divismo, con i volti carismatici di Francesca Bertini, Lyda Borrelli, Pina Menichelli.

Proprio un fotogramma di “Tosca” (1918) la dice lunga sull’appeal della location: la Bertini è ripresa in gesto drammatico un attimo prima del suicidio sulla terrazza di Castel Sant’Angelo, quasi oppressa dalla mole plumbea della cupola di San Pietro. E non poteva essere altrimenti, in ossequio alla ambientazione di Puccini.

Dagli anni Dieci del Novecento Roma era diventata protagonista del cinema con le sue case di produzione, la Cines prima di tutte. Nel primo dopoguerra questa supremazia sembra declinare, irrompono in Italia le pellicole stelle e strisce. Ma riprende grazie alle iniezioni praticatele dal Fascismo: lo Stato investe sull’arte della modernità, nascono a Roma l’Istituto Luce (1924), il Centro Sperimentale di Cinematografia (1935), Cinecittà (1937). Eccola, l’immagine della Città del Cinema appena inaugurata: la foto spazia nello sfondo sulla campagna romana che cinge via Tuscolana: un deserto fatto soltanto di campi, osserva Farinelli.

La scuola di recitazione e regia, le maestranze, gli scenografi, i costumisti sono il brodo di coltura del cinema del Secondo Dopoguerra. Neorealismo e Commedia all’Italiana dettano legge. E lo sfondo è sempre Roma. Con il corollario della gente che circonda, quasi soffoca, i set. Spigolature inedite campeggiano sui pannelli. Mario Monicelli appollaiato su un muretto, un fiasco di vino poggiato sopra e un panino tra le mani, quello era il “cestino” per la pausa pranzo sul set de “I soliti ignoti”. In via delle Tre Cannelle Marcello Mastroianni, Renato Salvatori e Carla Gravina, poi insieme a Vittorio Gassman sulla scalinata di via Tunisi, le Mura Vaticane e il groviglio di curiosi sullo sfondo. E’ il 1959, pochi anni prima Maurizio Arena, Franco Fabrizi e Antonio Cifariello stanno stretti sul cassone di una vettura in via del Tulliano, ovvero nel cuore del Foro Romano e il film è “Racconti romani”, copyright Alberto Moravia. Mentre un’acerba Elsa Martinelli vive “La notte brava” e una delle cornici è via delle Mura Latine. Pure questo è un film del 1959, tratto da un racconto di Pier Paolo Pasolini e comincia a spostarsi l’obiettivo della macchina da presa: non soltanto il centro storico ma le periferie, con le marane, le baracche, i palazzoni che si mangiano i prati.

La nuova Italia si presenta al mondo con il Neorealismo, la corsa disperata di Anna Magnani in “Roma città aperta” di Rossellini, l’angoscioso vagabondaggio dei primi attori non professionisti, Enzo Staiola e Lamberto Maggiorani in “Ladri di biciclette” di De Sica. Poi la Hollywood sul Tevere, le “Vacanze romane” di Audrey Hepburn e Gregory Peck.  Esplode la scintilla di Alberto Sordi, e uno spezzone lo ritrova in cima al Colosseo nelle vesti di Nando Mericoni, un disperato “americano a Roma”. Si fanno strada Mastroianni e la Loren e la mostra recupera rarissimi fotogrammi di un super8  a colori tratto da “La fortuna di essere donna”, diretto da Blasetti.

“Fellini e Pasolini – osserva Farinelli – consacrano Roma come capitale del mondo, snodo del passaggio dall’arcaico alla modernità”. In tre anni, dal ’60 al ’62, i due registi reinventano la Capitale e ne fanno “la metropoli del presente dove tutto accade”. “La dolce vita è, programmaticamente, una lettura esatta della medializzazione dell’Italia e del mondo, quasi un saggio sulla manipolazione dell’informazione e dell’immagine”. Ma se Fellini racconta i protagonisti della modernità, Pasolini con “Accattone” e “Mamma Roma” accende i riflettori sul milieu opposto, quello del sottoproletariato romano, un’umanità che vive alla giornata, di espedienti e che “non è mai stata rappresentata”.

Il manifesto della Festa del Cinema 2025, appena conclusa con successo crescente, inquadra proprio un Fellini di spalle, sul set di “Giulietta degli spiriti”. La kermesse al Parco delle Musica ha collaborato con la Direzione Musei Nazionali della Capitale alla produzione dell’esposizione che rimette Roma al centro dell’immaginario non soltanto italiano. Per questo girerà nei nostri Istituti di Cultura all’estero, ha anticipato Federico Mollicone,  presidente della Commissione Cultura di Montecitorio che ha promosso l’iniziativa.

 

 

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