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14 marzo 2023
di Guendalina Dainelli

Il semaforo, un pesce d’aprile

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Era il primo aprile del 1922, un mercoledì per la precisione, prima della domenica delle Palme, quando in pieno centro a Milano, all’incrocio tra Piazza Duomo, via Orefici e via Torino, comparve il primo semaforo d’Italia.

Solo pochi giorni prima era stata pubblicata sulla stampa una “avvertenza particolare”: "Il movimento dei veicoli e dei pedoni sarebbe stato regolato, “mediante segnalazioni luminose, con un semaforo centrale". Quale diavoleria era questa? La polizia urbana ammoniva inoltre che da quel momento i pedoni avrebbero dovuto “circolare esclusivamente sui marciapiedi … i veicoli dovranno tenere la parte della strada che è alla loro destra … gli autoveicoli non potranno far uso della marcia indietro per invertire la propria direzione”. Insomma, roba da mal di testa.

La prima esperienza fu particolarmente caotica, con grandi assembramenti di persone incuriosite dall’oggetto misterioso e automobilisti disorientati in coda

Pare infatti che la prima esperienza fu particolarmente caotica, con grandi assembramenti di persone incuriosite dall’oggetto misterioso e automobilisti disorientati in coda: il semaforo era regolato manualmente da un complicato meccanismo attivato dai vigili urbani e aveva quattro colori, rosso, giallo, verde e bianco. Le segnalazioni luminose venivano anche abbinate tra loro, per esempio rosso e bianco significava via ai pedoni e stop ai veicoli, giallo e verde via a tutti i veicoli senza distinzione. Le cronache dell’epoca riferiscono in effetti la “strepitante cacofonia di clacson, trombe, campanelli d’ogni timbro e d’ogni forza, sonanti la feroce sinfonia della protesta”.

Codice di condotta comune della civiltà moderna capace di condividere regole e comportamenti, il semaforo è diventato paradossalmente anche metafora di un mondo disumanizzato proprio in quanto globalizzato, retto da regole sterili e meccanismi artificiali che appannano l’elemento umano. E’ questa l’idea proposta nel pamphlet di Raoul Follereau, giornalista, filantropo e poeta francese, che ha significativamente intitolato la sua invettiva intitolato “La civilisation des feux rouges”, “La civiltà dei semafori”.

Senza scomodare semiotica e semiologia, il semaforo è anche metro di misura del livello di civilizzazione

Certo è che, senza scomodare semiotica e semiologia, il semaforo è anche metro di misura del livello di civilizzazione. Ancor più nelle sue versioni più evolute. Si prendano ad esempio Olanda, tra i Paesi più virtuosi d’Europa, e Singapore. Nel primo caso, la città di 's-Hertogenbosch ha pensato a un semaforo sempre verde negli incroci a L, in modo che le biciclette non debbano stazionare e attendere due volte aumentando il rischio di incidenti. A Singapore oltre 250 semafori sono stati dotati di un dispositivo che allunga il verde pedonale quando ad attraversare è una persona con ridotta mobilità: tutte le persone di età superiore a 60 anni o che soffrono di una disabilità motoria possono ottenere una scheda elettronica con cui ritardare l'accensione del rosso.

Insomma, se il primo semaforo della storia è quello installato a Cleveland, all'angolo fra la 105ª strada Est e la Euclid Avenue, il 5 agosto 1914, anche quello milanese, preceduto di soli tre anni da quello acceso a Parigi, merita la sua attenzione. La proposta che da anni è sostenuta dal blog di urbanistica Urbanfile è chiara e semplice: restituire a Milano, se non proprio in Piazza Duomo, il suo primo semaforo, trasformandolo in un monumento cittadino. La copia potrebbe anche non essere funzionante, ma diventerebbe a tutti gli effetti un contributo significativo alla memoria e alla storia della città. Intanto, tra curiosità e scetticismo, istallato quasi per scherzo, il primo semaforo nel 2025 compirà il centesimo anniversario.

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