instagram
7 giugno 2022
di Francesco Palmieri
Magica. Misteriosa. Feroce. Un figlio di Napoli torna a casa, ha il passo dello scrittore, del cronista, del flaneur

L'irresistibile Sirenata. Ogni giorno è buono per un ritorno o per la prima volta. Scegliete il vostro e partite

twitterfacebook

Solo alcuni anni fa, nella penombra, il principe d’Aquino staccava lui stesso i biglietti per gli sporadici visitatori della Cappella Sansevero, sogno alchemico-artistico dell’avo Raimondo di Sangro. Migliaia di pagine sono state scritte su questa figura e su quel monumento, che ora richiama folle di turisti quasi per compensare la contenuta attenzione in cui rimase, finché di Napoli non si tornò a parlare come di una irresistibile destinazione. Il Tour (non più Grand) ora procede accelerato e meno impegnativo. Con TripAdvisor e B&B. Smartphone senza baedeker. Ogni weekend è buono per un ritorno o per la prima volta.

Napule tre cose tene belle: ’o mare, ’o Vesuvio e ’e sfugliatelle

L’anticonformista non snobba i luoghi comuni, neanche i più riduttivi. Li supera attraversando i posti comuni. Il Museo di Capodimonte, il Museo Archeologico Nazionale, il Madre o (persino), il Museo Nitsch, ma anche il Museo Filangieri, nel palazzo di via Duomo che fu tra molto altro nido di fantasmi e dove la follia collezionistica di un’illustre famiglia tuttora traluce. Senza trascurare Santa Chiara, Napoli Sotterranea, il Tunnel Borbonico. Forse un bagno a Posillipo. Un ristorante ai Tribunali o al Borgo Marinari. La visita a Castel dell’Ovo. A San Gennaro nella Cappella del Tesoro, al sacrario pagano di Maradona sui Quartieri Spagnoli, alle capuzzelle nella chiesa delle Anime del Purgatorio. Un giro straniante nello sterminato ossario delle Fontanelle. Il caffè all’ovvio Gambrinus. Cioccolata artigianale da Gay Odin o alla fabbrica Gallucci. Una salita al Vomero verso Castel Sant’Elmo, il Museo di San Martino, la Villa Floridiana. Una nuova discesa a San Gregorio Armeno per guardare i pastori con eventuale passaggio nella chiesa di Santa Patrizia, dove anche la compatrona scioglie il sangue ma una volta a settimana. Poi San Gaetano. San Lorenzo. Il San Carlo o il Teatro Trianon davanti al ceppo ancestrale di Forcella.

Si può andare a Piedigrotta dove la Madonna perse una scarpetta e salire al “colombario” di Virgilio accanto a cui riposa Giacomo Leopardi, Il giovane favoloso al quale Mario Martone diede un volto diverso dal ritratto stracco dei testi liceali. Si può andare (coi fiori) da Enrico Caruso al Cimitero di Santa Maria del Pianto, che ospita anche la cappella di Totò. La casetta disastrata dove nacque il principe de Curtis le fa da contrappunto nel Rione Sanità, poco distante dal barocco trionfale del Palazzo dello Spagnolo, dalla basilica del “Monacone” e dalle catacombe nel tufo.

Ma la lista anche per chi s’appassiona è troppo lunga. La pizza da Sorbillo o da Michele, da Brandi o all’Antica Pizzeria Bellini. La metropolitana narcisista dalle stazioni tutte diverse come per un concorso estetico. Le tre funicolari con cui da oltre cent’anni si scende e si sale per non godere e morire di pedamentine e scale tra la collina e Giù Napoli. Edoardo Bennato la vede così: 

“Non è piana non è verticale/ è una linea che sale in collina/è una strada che parte dal mare/il percorso della città obliqua”. (E. Bennato)

Il termine delle liste è come il paradiso: sempre un metro più in là. Manca il teatro romano inghiottito dall’Anticaglia, dove cantò Nerone. La Chiesa del Gesù vicina alla scuola cantata in Lazzarella, in cui riposa il santo medico Giuseppe Moscati e si conserva il suo studio. Manca San Domenico Maggiore con il Crocifisso che parlò a san Tommaso quando insegnava nel monastero attiguo, dove la sua stanza e il suo omero sinistro devotamente si conservano, mentre non si sa dove fossero le celle di Tommaso Campanella e Giordano Bruno. Damnatio a quei due, frati sfrat(t)ati.

Incompiuta è la lista. Manca il Cimitero delle 366 fosse, capolavoro minimalista di Ferdinando Fuga per depositare, ogni giorno dell’anno, le spoglie di miserrimi, colerosi e anime lazzare. Che sì la fossa era comune ma almeno si pregava sopra il numero giusto e chissà a giocarselo al lotto. I sogni s’estraevano una volta a settimana, sabato al Grande Archivio, una volta però bastante per saturare la città dei ludopatici che Matilde Serao descrisse nel Paese di Cuccagna. Prima direttrice di un quotidiano in Italia, penna e cervello infaticabili, brutta sirena ma con diversi innamorati, intimidiva Mussolini e affascinò Gheddafi (che l’aveva letta a fondo). Lei ogni tanto si pigliava di freva e stropicciandosi la gonna lamentava: mannaggia a chesta ccà! Perché era una signora e dove andavano i cronisti non sempre lei poteva. Però chi s’appostava sotto le finestre del giornale, in Galleria, sentiva le sfuriate di donna Matilde verso quei cronisti stessi che – mannaggia a lloro – non erano stati capaci.

Morì scrivendo, testa sul foglio, e scrivendo morì Giuseppe Marotta, che non andrebbe ricordato solo per L’oro di Napoli, mentre scrissero morendo romanzo su romanzo, articolo dopo articolo, Francesco Mastriani e Federigo Verdinois, stacanovisti ma inevitabilmente poveri.

Quanto s’è scritto, quanto si scrive a Napoli. C’è sempre una pattuglia di raffinati editori più una lillipuziana schiera di stampatori arguti, a dispetto della debolezza del settore lamentata da quando in città si pubblicava per primo anche D’Annunzio. Come ogni capitale di qualcosa che sia o che sia stata, per Napoli rimane aperta la rubrica ‘Dicono di lei’.

C’è persino chi arrivando da fuori cerca Via Gemito per il romanzo di Starnone. O (casuale accostamento) per Elena Ferrante il Rione Luzzatti e l’erta di San Giacomo de’ Capri, dove è ambientata La vita bugiarda degli adulti.

Oleografia bianca oleografia nera. Bianco Marechiaro e nero Scampia. Una tinta si mescola all’altra nel tempo, nello spazio o nel rosso sangue. E ogni volta sembra tutto ricominciare daccapo perché, come scandisce il rap di Ralph P, “niente ’e nuovo” succede:

“Sto esaurito pecché nun tengo nient’’e nuovo, nient’’e nuovo”.

Non che Napoli resti bloccata nel passato: è il passato che trasvola sul presente e già aspetta seduto l’arrivo del futuro. Città di corsi e ricorsi, partorisce Giambattista Vico dietro piazza San Gaetano e si battezza a San Gennaro all’Olmo, l’angolo sacro sul decumano inferiore dove comincia la via di San Gregorio Armeno. Dove nacque Roberto Bracco, drammaturgo sensibile e dimenticato da quando era vivo, che pochi ricordano lambì il Premio Nobel. Scrisse i versi di una canzone musicata da Enrico de Leva, ’Nu passariello spierzo: un passero che non riesce a posarsi in pace finché trova la capanna dove una vecchierella è appena morta, ch’era campata senz’ammore e guaie. Autobiografico. Ma quanto scrisse Bracco. Riaffiora ogni tanto dalle librerie di Port’Alba un volume scompagnato di tutto il suo teatro. Che a teatro non si rappresenta quasi più.

Vico scrisse invece poco e molto. Finita La scienza nuova il tipografo gliela smarrì, dovette rifarla daccapo nel modesto quartino dove i figli piangevano e la moglie si stizziva perché vai a sapere che era un grande filosofo. Chi se ne fotte. Alla famiglia dovette sembrare più come l’alchimista di Balzac ne La ricerca dell’assoluto.

’Nu guaio passato.

Al giornalista Joe Marrazzo, terminato il romanzo sulla vita di Raffaele Cutolo, incendiarono la macchina con il dattiloscritto dentro. Pure lui riscrisse tutto daccapo. Il Camorrista fu un successo che ispirò il primo film di Tornatore, e incantando gli aspiranti boss diventò uno tra i motivi per cui al vecchio Cutolo, quaranta chili di peso, artigli mancanti, avrebbero imposto il 41 bis fino alla fine. Continuava nell’immaginario a non invecchiare perché era stato congelato nei lineamenti di Ben Gazzara più duri dei suoi.

“La morte si deve accettare” (R. Cutolo)

Se n’è andato nel 2021 Tullio Pironti, ma la sua libreria a piazza Dante, preannuncio di Port’Alba, c’era prima di lui per dinastia e gli sopravvive. Pugile da giovane, scacchista in retrobottega da vecchio, nel mezzo editore capace di dare scacco matto ai giganti del Nord pubblicando per primo in Italia Easton Ellis, DeLillo, Mahfuz e non solo. Bompiani ha riportato in libreria la sua autobiografia, Libri e cazzotti, memoir e manuale di umanità, poche settimane dopo aver rimesso in vita due grandi testi della narrativa fine Novecento: Ninfa plebea di Domenico Rea, Strega ’93, e Malacqua di Nicola Pugliese, il più bel libro su Napoli sotto la pioggia, sull’attesa e la distanza vista da vicino.

Nella lista non dovrebbe mancare il giro a Port’Alba dentro l’incubatrice del centro antico, dove pochi librai resistono e sono sia esponenti di antiche famiglie come Nunziante Pironti detto Nunzio, nipote di Tullio, sia di arrivo recente come Pasquale Langella, già guaglione del bar. C’è tra librai e caffè un filo di gusto. Ai clienti offrono una tazzina ma attenzione alle domande sciocche, perché sia Nunzio sia Pasquale hanno già pubblicato sapide plaquettes dove raccolgono pretese e bizzarrie di pickwickiani visitatori. L’ironia napoletana non è un luogo comune. Anzi sì. Mare, Vesuvio, sfogliatelle e sfottò.

Mare, Vesuvio, la Grotta Azzurra che ispirerà la Sirenetta a Andersen. Come fosse un Grand Tour lo sappiamo dalle parole di Goethe. Conosciamo cosa fecero tempo dopo Conrad e Wilde e poi di quando venne Gide o ci restò la Ortese, che avrebbe fatto finta di essersene andata per il resto della vita. Ma di Andersen non si sapeva finché Langella non ha pubblicato per la prima volta in italiano i tre diari napoletani dello scrittore danese. Ogni tanto da questo pozzo di San Patrizio, anzi di Santa Patrizia o Santa Partenope, qualcuno attinge una scoperta: Napoli inesauribile.

“’A tiene ’na cosa ’a raccuntà? ’A tiene o no ’na cosa ’a raccuntà?”

La domanda del regista Antonio Capuano a Fabietto Schisa, alter ego di Paolo Sorrentino, Napoli la rivolge continuamente a se stessa e si risponde: ‘Sì’. Perciò la lista è incompleta, perché andrebbe aggiornata anche di notte.

Certo da un po’ di tempo qui si rischia la plastica di Venezia, fermata obbligatoria su quei luoghi comuni per chi non procede più in là: volete Pulcinella, i pupazzi di Greta o Zelensky ed ecco qua, il babà da Leopoldo e la pastiera, che prima si mangiava solo a Pasqua e ora anche ad agosto e Natale. Volete il commissario Ricciardi: se vi accontentate ha un tavolo al Gambrinus come a Lisbona Pessoa-che-però-è-Pessoa, ma avremmo potuto mettere a sedere Croce D’Annunzio Caruso, Morelli e Palizzi, Di Giacomo e Ferdinando Russo (che là davvero si sedevano). O in ordine sparso Scarpetta Carosone Eduardo Viviani, Murolo padre e figlio, Pino Daniele Paisiello Pergolesi Rossini Donizetti (ospiti lavoranti). A ciascuno i suoi nomi. Senza peccato: pure Ciccio Cappuccio e Teofilo Sperino, guapponi del “c’era una volta”, ficcati nella lista.

“Senza nulla a pretendere” (Totò)

Attraversare luoghi e posti comuni poi abbandonarli per scovare, ad esempio, la tomba di Alessandro Scarlatti nella chiesa di Santa Maria di Montesanto. Giusto per apprezzare la definitività della lapide al “più grande innovatore della musica”, che “tolse all’antichità la gloria, alla posterità la speranza di imitare”. O constatare che esiste un sacello graziaddio presunto di Dracula nel chiostro di Santa Maria la Nova, che secondo alcuni storici conterrebbe davvero i resti di Vlad Tepes. Venne Cagliostro in questa chiesa a piangere la morte del maestro cavalier d’Aquino, o forse a carpirne i rituali della massoneria egizia. Comunque aveva capito che a Napoli bisogna muoversi discretamente perché non è Parigi né L’Aia né una proba municipalità tedesca. I figli callidi della Sirena alle “tre carte” pretendono di vincere loro.

Ccà nisciuno è fesso.

Prima del principe di Sansevero, in un palazzo di via San Liborio dietro piazza Carità allignò il “mago”, tra Cinque e Seicento leggasi scienziato, Giambattista Della Porta, il quale si dilettava anche di drammaturgia. Perché magia è teatro. Il teatro è magia. Il concittadino cavalier Cesare Gabbrielli, inventore della proverbiale esortazione “a me gli occhi!” fu un fior d’illusionista e lettore del pensiero che si metteva a tu per tu col pubblico. A Thomas Mann suggerì il racconto da cui Visconti trasse un balletto e D’Annunzio lo chiamò “artefice magico”, dando così lo spunto a Eduardo per porlo in caricatura nell’atto unico Sik-Sik, l’artefice magico (Gabbrielli era effettivamente sicco sicco come l’abituale frac nero enfatizzava, nonché avido di cognac e sigarette).

Non è facile essere mago a Napoli dopo che il suo Mago par excellence  fu Virgilio (secondo mestiere poeta), custode dell’uovo della vita sotto Castel dell’Ovo (pertanto il nome). Se quel guscio s’infrange la città finisce. Con lei s’estingue la tribù dei napoletani. “Tribù” lo disse Pasolini.

Chi al Vomero si trovi a passare davanti al Teatro Diana, sappia che là fu il regno del tutto esaurito di Gabbrielli, che su quel palcoscenico da cui è cascato di recente Massimo Ranieri ascesero al successo i fratelli De Filippo e si consumò la rottura tra Eduardo e Peppino, quando il più piccolo stanco del dispotico maggiore montò nel mezzo delle prove su una sedia e cominciò a gridargli “du-ce du-ce”.

Ci sono sempre stati gruppetti di esoteristi a passeggio per le vie del Vomero: ingegneri decifratori delle Centurie di Nostradamus, professori di latino artefici di nuove matematiche, aspiranti templari, esegeti del principe di Sansevero, flâneurs perdigiornata, che a differenza dei geniali nevrastenici Walser e Bernhard usano intrecciare passeggiando improbabili sapienze a ironie dialettali, consci per rassegnazione che alla fine tutto è gioco o sogno. Ovvero, Tony Pisapia/Toni Servillo dixit:

“’A vita è ’na strunzata” (P. Sorrentino, L’uomo in più)

Perché quella degli ingegneri e dei giocatori del lotto, come scrive La Capria, è “una reazione a questo senso di precarietà, oltre che espressione dell’ancestrale spirito esoterico dei napoletani”, “una continuità mai interrotta col mondo antico”. Il passato è sempre là e anche quelli che vanno via da Napoli se ne vanno con Napoli, ma a differenza dello Stephen Dedalus di Joyce, che lasciò Dublino con “silence, exile, and cunning”, loro si tengono l’esilio e l’astuzia ma non stanno mai zitti. Pro o contro Napoli continuano a parlare ovunque vadano a smarrirsi.

Che nostalgia rimi con oleografia non autorizza a sopprimere l’una assieme all’altra.

“Vurria turnà addo te/pe’ n’ora sola, Napule mia/pe’ te sentì ’e cantà cu mille manduline” (A. Pugliese/F. Rendine)

Forse bisogna esagerare affinché sembri finzione anche la vera nostalgia, usando l’oleografia per mascherare il volto quando il tempo, che sente solo le sue proprie ragioni, si rivela troppo insolente.

Perciò se a Napoli si dice “addio” spesso è un “arrivederci” esagerato. Un adios da viceregno spagnolo. Sirena fu, Sirena è e sarà (o sarebbe). Quando il francese vesuviano Teodoro Cottrau (re)inventò la famosa Addio mia bella Napoli glielo giurò: “O magica sirena fedel, fedele a te sarò”. Ma come poteva immaginare che il 9 maggio 2022 il cantautore Liberato, misteriosa identità tipo Banksy o Elena Ferrante, avrebbe pubblicato il brano Partenope, dove di lei si parla ancora:“Nu juorno bell’e bbuono a ’sta guagliona nn’’a truvaje/Chiedette a tutte parte, nisciuno me pensaje/Nun te n’adduone ca ’sta piccerella t’affunnaje/’Ammò, era na sirena’,/dicette e me guardaje”.

Il passato aspetta il futuro e gli mette fretta perché s’annoia.

Seguici su

instagram