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9 giugno 2022
di Gabriele Fazio

Napoli e dintorni, a ritmo di rap

Clementino 
Clementino 
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“Ce truov int o' rione/nun me sent bbuon mammà/ch' me succer/e' frat mi so fummn ancor/e dint e fras nost/a rivoluzione/chist è o' sole nuovo/o'ssaje ca è mal ammor”; in questi pochi versi si riassume ed esplode un’immagine chiara, nitida, veggente quasi, perché “Int'o Rione”, uno dei brani più intensi dei Co’Sang, esce nel 2005, quando non era previsto e nemmeno prevedibile tutto quello che sarebbe successo nella discografia italiana da lì a quindici anni.

Un brano che diventa manifesto culturale a propria insaputa, che racchiude tutto, la visione dal basso, dai quartieri, il romanticismo, l’epica della strada, la paura, la consapevolezza e poi la rivelazione: “Nelle nostre frasi la rivoluzione, questo è un nuovo sole”, una luce che si sprigiona dal più buio dei posti illuminati, dove gli ultimi di una città che pulsa bellezza, una città inconcepibile da un certo punto di vista, certamente unica nelle proprie dinamiche, si sono rintanati per dar vita ad una visione alternativa della società, della storia, dell’esistenza, un luogo a parte, un luogo altro, l’unico probabilmente in Italia in cui era possibile tutto ciò si venisse a creare.

Sette dei dieci album più venduti del 2021 in Italia sono rap, sei dei dieci singoli più ascoltati nel 2021 sono rap; e i dati che riceveremo tra qualche mese sul 2022 dovrebbero confermare questa linea.

Ma in realtà basterebbe anche solo leccarsi l’indice e puntarlo al cielo, fiutare l’aria, notare che il pop classico, melodico, di italica tradizione, già da tempo ha issato bandiera bianca, si è velocemente piegato a questo trend rendendo quasi obbligatorio, se si ha intenzione di esistere sul mercato, anche per il quarto d’ora canonico, anche se sei un cantante di lunga carriera e prestigiosa nomea, aggiungere alle proprie opere degli elementi urban.

Dopo la rivoluzione indie degli anni ’10, che aveva spostato il baricentro della musica italiana a Roma, il rap permette a Milano di riprendersi il titolo di città della discografia, la città dove tutto accade, dove risiedono le sedi dei grossi player del mercato, le piattaforme per l’ascolto della musica in streaming, le radio, le etichette, le feste, le passerelle, i backstage cool dove si incontra la gente giusta, il luogo dove farsi notare per farcela o per poter postare su Instagram che ce l’hai fatta, che poi nella maggior parte dei casi, stringi stringi, l’obiettivo è quello; insomma quasi tutto succede lì ed è da lì che sei costretto a passare, specie se le cose ti girano per il verso giusto.

E poi c’è Napoli, che è tutta un’altra storia, che mantiene un rapporto con la musica del tutto diverso; nel capoluogo campano infatti la musica non è una disciplina che si applica, non è solo intrattenimento, non è solo cultura, non è solo linguaggio, non è solo tradizione, non è solo business, è tutte queste cose assieme, se a Milano la musica arriva, trasformandosi dunque in mercato, in manifestazione glamour, popolarità, follower, copertine patinate e, in pratica, discografia; dal capoluogo campano invece la musica arriva.

A Napoli la musica è sangue e aria, è conformazione chimica, fisica, logopedica, un’intonazione che va aldilà dell’inflessione dialettale, un qualcosa che si ha l’impressione che prescinda la stessa volontà umana, ci si nasce proprio; qualcosa che c’è e non è possibile estirpare.

A chi le luci dello showbiz, a chi l’aria frizzante, a chi il vento che tira forte su un’isola, a chi il cibo, è chiaro, a chi la mobilità frenetica, a chi la sacra arte dell’intrallazzo politico, a chi la grande pittura, i grandi monumenti, i grandi autori, a chi Totti, a chi le montagne innevate, a chi i fiumi romanticamente verdastri; la musica è toccata a Napoli.

Una cosa talmente radicata che modifica perfino il significato stesso della parola musica, che si assottiglia fino a prendere i connotati della parola “anima”, qualcosa che esiste, che senza ci sentiremmo monchi, ma la cui declinazione materiale, commerciale, quindi la classifica, la vendita del disco, perfino l’esibizione live, è del tutto secondaria, una pleonastica conseguenza, qualcosa che se succede bene, se non succede bene uguale. Esiste, figuriamoci, ma non è così importante come la narrazione in sé, quanto l’esigenza, secolare, della città di raccontarsi attraverso il canto.

Non esiste un solo luogo in Italia che, musicalmente parlando, si autocelebri come Napoli; quante macchine percorrono le vie di Milano pompando al massimo, fino a far tremare i vetri, brani in dialetto milanese? Quanti ragazzi aspettano il passaggio della prossima metro a Roma ascoltando nelle cuffiette stornelli in romanesco? Probabilmente queste situazioni non esistono e non perché la tradizione sia meno tradizione, ma perché la tradizione è solo tradizione, ed è stata messa in soffitta, a ben ragione o meno, comprensibilmente o meno, ad impolverarsi come uno di quei vestiti che non calzano più.

Ecco, appunto, a Napoli no, a Napoli la tradizione calza ancora perfettamente, perché facendo parte del patrimonio genetico dei napoletani, in maniera del tutto naturale si è trasformata, declinata, in qualcosa di estremamente presente, estremamente legato alla realtà odierna; per questo la più solida e strutturata scena rap in Italia è proprio quella napoletana. Perché è la più onesta.

Intanto è una questione di linguistica, di grammatica, di fonetica, il napoletano, molto più dell’italiano, si adatta alla metrica del rap, alla costruzione in barre dei testi, avvalendosi della troncatura finale delle parole e di un utilizzo delle vocali non solo più efficace ma anche più elastico, allargando dunque, e non di poco, proprio meramente la lista di parole a disposizione dell’artista, immaginate uno scrittore italiano con un nuovo intero vocabolario di parole da utilizzare.

Poi è anche una questione di tematiche, quella che in gergo viene chiamata “Street Credibility”, Napoli è certamente la città d’Italia in cui le tematiche che hanno reso il rap non solo popolare ma anche socialmente utile, storicamente fondamentale, linguaggio buono per raccontare disagio e riscatto, caduta e ripresa, restano più vivide.

Non è affatto esagerato dire che il rap per il pubblico della musica di oggi, e intendiamo il pubblico attivo, quello che streamma e popola i concerti, una fascia anagraficamente molto bassa, abbia avuto lo stesso impatto dei Beatles per gli adolescenti dei ’60. Una rivoluzione musicale si, ma che ha condizionato e ispirato anche l’estetica, la poetica, la socialità e il linguaggio; e così avviene oggi in Italia, solo che mentre il rap al nord ha cominciato a strizzare l’occhio al mercato, plastificando e non poco la narrazione, diventata ormai credibile solo fino ad un certo punto, è a Napoli che il rap si esprime con assoluta autenticità.

La Hip-Hop culture, della quale il rap è solo una delle discipline, arriva in Italia verso la metà degli anni ’80; per molti ragazzi una soluzione, una modalità di espressione nuova e alternativa, un non-luogo che in una società nella quale esplode un certo fasullo ma convincente ottimismo, divorata da Yuppies incalliti e tv commerciale, accoglie gli ultimi, gli emarginati, chiunque non si ritrovi in quell’affannoso desiderio di ostentazione. È un genere di nicchia, non ci sono dischi da sfogliare in un negozio di musica, i vinili spesso sono reliquie di viaggi, vengono spediti e poi ricevuti con lunghissimi tempi di attesa, oppure viaggiano su musicassetta letteralmente di mano in mano.

A Napoli tra i primissimi a cimentarsi con il rap sono Polo, ShaOne e DJ Simi, fanno parte della storica crew di writers K.T.M. e fondano La Famiglia, certamente tra i primi collettivi della scena nazionale, per un loro disco però bisogna aspettare praticamente dieci anni, solo nel 1998 infatti esce “41º Parallelo”, titolo scelto proprio in riferimento alla linea immaginaria che unisce New York, considerato come luogo di nascita del rap, o meglio, luogo in cui un genere così scomodo rispetto all’establishment dello showbiz musicale riesce non solo ad esistere ma anche a trovare il successo commerciale, a togliere i ragazzi dalle strade, a permettere, in perfetta sintonia con il famigerato “American Dream”, a chiunque voglia farcela, appunto, di farcela; a Napoli, che trova improvvisamente un senso artistico, una personalità, quasi un’anima, nel rappresentare quel degrado dalle cui macerie oltreoceano è nato il rap.

La Hip-Hop culture, della quale il rap è solo una delle discipline, arriva in Italia verso la metà degli anni ’80; per molti ragazzi una soluzione, una modalità di espressione nuova e alternativa.

Ma è chiaro che New York e Napoli non sono la stessa cosa, per cui se negli Stati Uniti il rap diventa un mezzo per arrivare a qualcosa, per combattere una battaglia in cui gli afroamericani si giocano i diritti più elementari, a Napoli diventa un mezzo per raccontare qualcosa e probabilmente avere l’impressione che quella cosa, avendola raccontata, in qualche modo venga esorcizzata e, in qualche modo, esista, in un’Italia, specie quella dell’epoca, così brava a voltarsi dall’altra parte quando si parla di certe problematiche di matrice meridionale. Tant’è che uno dei brani de La Famiglia che fanno più successo si intitola “Prrr” ed entra a gamba tesa nel dialogo, ai tempi decisamente più intenso, tra nord e sud, una presa in giro verso quelli che non capiscono il dialetto napoletano; quindi ciò che in America si traduce in ostentazione machista, veri e propri agguati mortali a colpi di pistole, a Napoli, in puro stile commedia dell’arte, diventa una pernacchia.

Solo in un secondo momento, primissimi anni ’90, il rap napoletano, in realtà quella ramificazione che proviene direttamente dall’attivissima scena ragamuffin, assume una matrice espressamente controculturale e politica con la nascita dei 99 Posse, che infatti altro non sono, proprio in quanto “Posse”, che la diretta espressione musicale di ciò che accade all’interno del “Centro Sociale Occupato Autogestito” Officina 99, che scrivono canzoni come “Salario garantito”, “Rigurgito antifascista”, brano che segna l’esordio di Speaker Cenzou, all’epoca quindicenne, e cui album d’esordio “Il bambino cattivo” è considerato in assoluto il primo puramente rap della storia della città (uscirà nel 1996); e più tardi pubblicano “Curre curre guaglió”, che vince il Premio Tenco come migliore opera dialettale e la rivista Rolling Stone piazza al 49esimo posto della classifica degli album più belli della storia della musica italiana.

Un successo, si, “Curre curre guagliò” diventa un inno d’inclinazione decisamente sinistroide, rivoluzionaria, ma esce in un momento in cui il rap non si sogna nemmeno di invadere il territorio del mainstream, basti pensare che quell’anno i singoli italiani più venduti sono “Gli spari sopra” e “Delusa” di Vasco Rossi, “Sei un mito” degli 883, e “Si o no”, eroica cover in italiano di “Please, Don’t Go” firmata da Fiorello; e a Sanremo la categoria giovani viene conquistata da una giovanissima cantante teletrasportata dai pianobar di Faenza in featuring con papà, direttamente sul palco del Teatro Ariston per cantare di quel “Marco” che “se n’è andato e non ritorna più"; si chiama Laura Pausini e la canzone si intitola “La solitudine”, a far due conti non proprio il massimo dell’impegno sociale. Forse è proprio la pretesa di non doversi confrontare con il mercato nazional-popolare a rendere il rap napoletano una zona franca per il libero sfogo, dando vita ad una coloratissima scena underground. 

Ma l’essenza del rap napoletano ha radici ben più radicate, è impossibile infatti parlare del rap a Napoli senza fare riferimenti al neomelodico, con il quale il rap ha dei significativi punti di convergenza. Intanto precede il rap solo di pochi anni, raccogliendo alla fine dei ’70 l’eredità della sceneggiata partenopea portata avanti, tra gli altri, da Mario Merola, l’ultima autentica espressione che riporta in maniera rilevante alla canzone napoletana classica, che ha radici risalenti addirittura all’Ottocento ed è stata surclassata dal passare del tempo.

E poi, soprattutto, è anche una nuova lingua per chi non riconosce l’italiano come propria lingua madre e non può fisiologicamente riconoscersi nella musica italiana dei grandi network; così il neomelodico diventa la rappresentazione in dialetto del romanticismo pop melodico italiano dell’epoca, che in quei luoghi si trasforma in qualcosa di meravigliosamente sguaiato e saldamente attaccato alle origini, tant’è che non può fare a meno della parte visual, cinematografica; un contesto dentro il quale esplode il successo di uno scugnizzo di San Pietro a Patierno di nome Gaetano D'Angelo, ma che tutti conoscono come Nino.

Dal punto di vista musicale naturalmente parliamo di due pianeti completamente differenti, ma il rap risponde a delle esigenze, esattamente come fatto dal neomelodico, e non ha altre aspettative se non quelle di dar parola ai cuori di chi si trova in difficoltà e vive situazioni di disagio, una lingua talmente degli ultimi che negli anni più volte le autorità si sono rese conto che all’interno dei testi si nascondevano messaggi per dei boss della camorra detenuti in carcere, questo a testimonianza di quanto, esattamente come il rap, non fosse solo musica per pochi ma anche lingua per pochi, un codice unico e praticamente irripetibile.

L’essenza del rap napoletano ha radici ben più radicate, è impossibile infatti parlare del rap a Napoli senza fare riferimenti al neomelodico, con il quale il rap ha dei significativi punti di convergenza.

In realtà il fattore che da la vera spinta all’esplosione del rap a Napoli è semplicemente storico e geografico, negli anni ’50 infatti gli americani si stabiliscono a Bagnoli, circa 8 Km lontano dal centro, occupando uno spazio di 300mila metri quadrati dove nel ’39, prima che la guerra lo rendesse un puntino nelle strategie dei paesi coinvolti, sorgeva l’Istituto per i Figli del Popolo di Napoli, un progetto, rivelatosi fallimentare, per il recupero pedagogico dei bambini cresciuti in situazioni di disagio. Gli Stati Uniti ci piazzano dentro il comando strategico AFSOUTH (Allied Forces Southern Europe), poi dismesso nel 2012; e ciò significa che per sessant’anni si stabiliscono lì, entrando in contatto con i locali e facendogli ascoltare anche la loro musica, il rap all’inizio degli ’80, è chiaro, che dalle loro parti già era estremamente popolare. Il tutto viene mescolato ad un altro movimento particolarmente significativo nella storia della musica napoletana, il cosiddetto “Neapolitan Power”, ovvero la rivisitazione in chiave partenopea della tradizione anglosassone e mediterranea, una sorta di incrocio culturale tra le sonorità, soprattutto funky, degli Stati Uniti, i connotati della world music e la solidità della tradizione musicale napoletana. Un percorso simile a quello americano, tra l’altro, e che ad oggi fa la differenza, sempre più netta, tra il rap di Napoli e quello di Milano, il primo è il risultato di un’evoluzione culturale, di qualcosa che già esisteva nell’anima dei napoletani e che doveva solo essere tirato fuori, l’altro scimmiotta con risultati alterni il mood e lo stile del rap americano, senza però, salvo dovute eccezioni, assorbirne i riferimenti storici e più profondi. Così, in pratica, miti assoluti come James Senese, Pino Daniele, Enzo Gragnaniello ed Enzo Avitabile hanno rappresentato per il rap napoletano quello che James Brown ha rappresentato per il rap a stelle e strisce.

Il nuovo millennio, musicalmente parlando, coglie il nostro paese alle prese con un preoccupante decadimento, i talent musicali sono una novità esplosiva e rischiano di massacrare l’apparato musicale per come lo conosciamo, che impedisce al sottosuolo cantautorale di fare il passo nazional-popolare in un mercato ingolfato di ragazzi senza cognome che durano pochissimo, mentre gli autori degli anni ’90 hanno fatto il loro tempo lasciando un vuoto che dunque non si può colmare.

Sul finire del millennio precedente sono esplosi dei progetti rap a livello nazionale, come Neffa con “Neffa e i messaggeri della dopa”, gli Articolo 31 con “Cosi com'è”, sono usciti album splendidi come “Verba Manent” di Frankie hi-nrg e “Sotto effetto stono” dei Sottotono, che nel 2001 saranno anche in gara al Festival di Sanremo, portando il rap oltre i confini dell’allora pensabile, all’interno della casa madre del pop più classico e commerciale.

A questo punto le major si accorgono che forse il rap può rappresentare una possibilità, ma la verità è che la misura di quel successo non è nemmeno paragonabile a quella dei nomi della scena attuale; si tratta solo di piccole grandi parentesi, ma il rap ancora non è per tutti.

A Napoli il rapper Lucariello e il beatmaker Peppe 'O Red formano i Clan Vesuvio, importanti soprattutto per aver ospitato la prima uscita dei Co'Sang, crew fondata da Ntò e Luchè nel quartiere Marianella, due album all’attivo e una scossa forte alla scena della città perché per primi, e forse meglio di tutti, raccontano senza mezzi termini la vita della strada, una narrazione troppo forte per il mainstream dell’epoca ma che inevitabilmente invece conquista il pubblico di Napoli che può finalmente tornare a specchiarsi in maniera schietta in un disco, una Napoli dentro la quale a poco più di vent’anni orbita un ragazzino che stravince tutte le gare di freestyle, si chiama Clemente Maccaro ma per tutti è Clementino.

Clementino, così come Luché, che sono due che riusciranno a rappresentare qualcosa anche oltre i confini della città, sono infatti andati benissimo i loro ultimi album usciti da poco, sono veri e propri fenomeni della parola, della lirica in barre, che hanno trovato nel rap la loro ragion d’essere, ma la loro ispirazione resta old school, inevitabilmente legata a sonorità oltreoceano, riconoscendo in quel sound, e quello soltanto, il genere nella sua forma più pura; ma il passare degli anni, la mutazione totale dei confini della musica in termini di produzione, distribuzione, promozione e vendita, quindi anche sound, permette in realtà solo negli ultimi anni la formazione di una vera e propria scena rap napoletana, solida e compatta. Mv Killa, Geolier, Nicola Siciliano, Vale Lambo, Lele Blade, Enzo Dong, CoCo, J Lord, i nomi si sono moltiplicati, così come gli ascolti su Spotify, tutti nomi che viaggiano tra i 500mila e i 2 milioni e mezzo di stream mensili sulla piattaforma, tutti che con i loro videoclip su YouTube raccolgono milioni di views, citando solo quelli che stanno andando così forte da essersi fatti un nome anche fuori, tra i tantissimi, molto più di quelli che possiamo pensare, già innamorati del neomelodico e che hanno trovato nel rap napoletano una nuova fiamma.

Non a caso le due scene, quella rap moderna e quella neomelodica, o perlomeno la versione più nazional popolare di quella neomelodica, rappresentata da Gigi D’Alessio, si incontrano proprio per volere del cantautore napoletano, che decide nell’album “Buongiorno” di riprendere alcuni dei brani delle sue origini, quando navigava serenamente nelle acque del neomelodico, ben prima della travolgente esplosione in italiano, per rivisitarli insieme a questi ragazzi; decide perfino di portarli con lui come ospiti sul palco del Teatro Ariston di Sanremo in un’esibizione particolarmente colorata, si, ma non pungente, non memorabile, questo perché una narrazione così profondamente legata alla strada difficilmente può trovare spazio, o meglio agio, su un palco così scottante, non perlomeno da un momento all’altro, come raccontare la barzelletta sbagliata alla persona sbagliata, poi è chiaro che scatta un certo imbarazzo. In compenso il disco è forse una delle più illuminanti trovate di D’Alessio, ma soprattutto, storicamente, rappresenta una benedizione da parte dell’indiscusso re della musica partenopea moderna, il sigillo sul talento di questi ragazzi dai numeri stratosferici ai quali spetta il compito, oggi come oggi, di raccontare Napoli.

È chiaro che la spinta verso il successo di questi ragazzi arrivi dalla scena nazionale, è chiaro che il modo in cui un brano deve “suonare” lo impongono gli Stati Uniti, che è sempre quello l’orizzonte che si insegue con affanno, inutilmente, in quanto, essendo un orizzonte, più ti avvicini più si allontana. Ma è proprio in questo contesto che vengono fuori forti i tratti della personalità napoletana, i suoni del rap (ma anche della trap, al quale Napoli e finora solo Napoli ha dato una reale dignità) infatti è come se riuscissero allo stesso tempo a mantenere l’anima del messaggio, la narrazione dei temi di strada, il fulcro intorno al quale, volente o nolente, gira il rap, però allo stesso tempo ne controllasse l’esuberanza.

Il risultato che ne viene fuori è meravigliosamente robusto e distopico, mentre a Milano nei testi rap si fa la gara a chi ce l’ha fatta di più, a chi si droga di più, a chi guadagna di più, a chi va a letto con più donne, quasi regolarmente trattate come oggetti (non a caso nel rap italiano le voci femminili fanno una gran fatica ad imporsi); a Napoli vengono fuori le storie, non si è mai perso un certo tipo di romanticismo e quando si parla di rivalsa, anche violenta, è rivalsa vera, da vere situazioni limite.

I napoletani hanno dentro questa inflessione di per sé musicale, riescono a dare alle loro produzioni una raffinatezza del tutto unica; i suoni sono quasi sempre minimal, la poetica essenziale, perché tanto ci pensa il dialetto a dare qualcosa in più.

A tal proposito, anni fa capitò di fare due chiacchiere con uno di loro, non importa il nome, era appena uscito un suo album, fantastico, un grande esordio acclamato dal pubblico, perlomeno in rete, a nostro parere addirittura da Targa Tenco; brani struggenti, storie alle quali si resta attaccati, una poetica così potente, la forza dirompente delle strade di Napoli, Secondigliano per l’esattezza, portate in musica, con un’idea così autentica di sound, da risultare quasi illuminante. Dopo l’ascolto del disco eravamo pronti ad un’intervista dai toni decisamente intellettuali, alla ricerca di una risposta a quell’incredulità che scaturisce, perlomeno in chi segue la musica con l’atteggiamento del nerd (vostro onore, colpevole), quando si ascolta musica di tale livello. La totalità delle domande preparate per quell’incontro sono state cestinate dopo i primi due minuti di conversazione, dato che ci siamo resi conto che il ragazzo in questione non era letteralmente in grado di pronunciare una frase di senso compiuto in lingua italiana.

Attenzione, in quel duetto eravamo noi la parte sbagliata, eravamo noi che, abituati al nostro cantautorato sinistroide e borghese, ci trovavamo fuori luogo, pretendevamo di dare una spiegazione ultraterrena, quindi vagamente prosaica, di qualcosa che invece è etereo, non ci sono formule, un enigma senza soluzione, la musica appunto; cui linguaggio non è l’italiano corretto ma l’istinto, quella scintilla che brilla solo dentro alcuni e che li spinge all’esposizione, probabilmente troppo pieni di qualcosa che va condiviso fuori da sé stessi, quelle onde che poi solo dentro di noi si trasformano in emozioni.

Allora non solo quell’intervista è venuta proprio bene, come vengono sempre le interviste quando le domande sono passi in un territorio sconosciuto e sono quindi portate avanti con la curiosità genuina di chi si trova davanti a qualcosa di così affascinante e lontano da sé, ma anche perché quel giovanissimo rapper napoletano ci diede una delle più fondamentali lezioni di musica della nostra vita di ascoltatori appassionati. La musica a Napoli, il rap soprattutto negli ultimi anni, è spinta dalla sola necessità, profondamente artistica, di espressione; in barba agli streaming, le radio, le etichette, le feste, le passerelle e i backstage cool dove si incontra la gente giusta.

Nell’ultimo album di Clementino, “Black Pulcinella”, uscito appena una settimana fa, il rapper ha inserito un brano dal titolo “Emirates”, featuring con il fratellino più piccolo di Salerno Rocco Hunt, preso sotto la propria ala in tenera età; nel brano si racconta, benissimo, l’altalena di emozioni di chi è costretto a lasciare Napoli per riuscire nel mondo della musica italiana. Perché dovrebbe essere così lacerante per un napoletano farcela? Quindi lasciare la propria città per la convocazione a Milano, la città della musica, andare incontro ad un destino fortunato, lontano dal degrado, a far soldi, a raccogliere quel successo in cui credi pubblicando le prime barre su YouTube gratuitamente, incrociando le dita e sperando che quel che fai abbia significato per qualcuno.

Non è esattamente quello lo scopo? Non è esattamente quello che si insegue? Forse perché nel momento in cui lasci Napoli, oltre al panorama cambiano anche le finalità di ciò che stai facendo, inevitabilmente una parte di quell’anima pura e semplice resta a casa, per le strade del capoluogo campano; quell’istinto diventa intenzione, che è l’antitesi della spontaneità, quell’etereo così vivido viene impacchettato e venduto.

Sarà per questo che molti dei principali rapper della scena napoletana restano a vivere a Napoli, non riescono a distaccarsene, perché è la loro casa, certo, ma forse anche perché è la casa delle proprie storie, del proprio talento, per la paura di diventare persone diverse lontano da lì, e quindi anche artisti diversi e traditori non dei propri colori ma della propria essenza come uomini. E sarà forse per questa autenticità che il rapper in dialetto napoletano funziona così bene, perché nella musica non c’è niente di più attrattivo, magnetico, incantevole e fascinoso della verità.

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