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21 luglio 2023
di Stefano Rissetto

...e la chiamano musica

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L’estate è un tempo e uno spazio, una scrittura e un silenzio. Di tutto questo è fatta una canzone per l’estate, impastata quasi di niente, perché tutta la musica è in ostaggio del silenzio e vive fin che lo elude: una canzone che nacque in Italia ed è diventata di tutti e di nessuno, perché sì è affezionata a chi l’abbia adottata, come un cucciolo sperso, e ora vaga per il mondo, impigliata nei mulini dei ricordi.

“Estate” è del 1960, l’anno delle Olimpiadi di Roma, i Giochi del velocista con gli occhiali e dell’etiope scalzo e del pugile che avrebbe cambiato nome e religione. A scrivere il testo, in una stanza d’albergo a Napoli, fu Bruno Brighetti, un polistrumentista bolognese che suonava fiati e fisarmonica nel gruppo di Bruno Martino, un trentacinquenne pianista romano di estrazione jazzistica, che si era trovato a cantare per caso, per l’assenza del suo vocalista e non avrebbe mai più smesso, e che aveva fatto una discreta fortuna suonando nei club del Nordeuropa. Lontano dal suo sole.

Appena musicata, si chiamava “Odio l’estate” e passò quasi inosservata; agli albori degli anni Sessanta quella canzone amara poco si conciliava con gli umori collettivi, era la storia di un amore perduto nella bella stagione tanto da far desiderare l’arrivo dell’inverno, con la neve a coprire ogni cosa e dare un po’ di pace, forse. Giunse anche la parodia di Lelio Luttazzi, “Odio le statue”, per l’accantonamento.

Passò così il tempo, lontano dal grande successo Bruno Martino divenne così un garbato e mite Jep Gambardella della musica, appartato interprete di colonne sonore, amico di Sandro Ciotti che scriveva canzoni per Jannacci, uno che si guardava passare alla finestra, un grande avvenire dietro le spalle d’altri. Alternava canzoni sentimentali a brani ironici, fantascientifici, noir, quasi fosse ancora in cerca del genere adatto al suo talento. O forse cercava ancora la sua “Estate”, o meglio qualcun altro che sapesse comprenderla.

 Poi arrivò il 1977, che in Italia voleva dire autunno tutto l’anno, foglie di piombo e legno dei calci di pistola. Non certo l’epoca più congrua alle riscoperte. Eppure nel nostro Paese arrivò un sommesso interprete latinoamericano, João Gilberto Prado Pereira de Oliveira, a riscoprire quasi per caso “Estate” e a dare a quelle note l’anima di triste allegria del suo Brasile, sussurrando le parole in punta di dita sulle corde di una chitarra, virata a bossa nova come se fosse sempre stata sua.

Dopo la versione orfica e notturna di João Gilberto, “Estate” entrò a far parte del repertorio dei più grandi musicisti jazz, quel che si dice uno “standard”: un brano che non ci si può permettere di non eseguire. Forse non è questione di grandi numeri, non l’hanno cantata gli artisti da milioni di dischi, da concerti negli stadi, da stelle su stelle. Però è arrivata lo stesso alla voce e allo strumento di fuoriclasse del jazz, perché dal jazz veniva Martino e al jazz sarebbe tornato con quella canzone ormai lontana, tanto che era nata una sua “gemella”: “E la chiamano estate, questa estate senza te”, un altro sentimento incagliato nella realtà, troppo alto per misurarsi con l’apparir del vero.

 Ma c’era l’altra “Estate”, ormai rarefatta e scansionata fino alla sua essenza Zen, a rasentare l’assenza e l’esilio. Negli anni l’hanno interpretata Mina e Shirley Horn, Helen Merrill e Ornella Vanoni, quasi che il suo segreto fosse decodificatile soltanto da una voce femminile; poi tra gli ultimi è arrivato Vinicio Capossela, a darne una lettura notturna e quasi licantropa. 

Sono però tre le versioni di “Estate” che brillano nel buio, malinconia e mistero di una canzone fatta per essere cantata e che invece scandiscono un pianoforte, un’armonica, una tromba.

Il pianoforte era quello del francese Michel Petrucciani, un genio bambino che colluttava con la tastiera troppo smisurata per il suo corpo inceppato dalla malattia: capace di infondere nel suo strumento tutta la sabbia del deserto per raccontare Ellington, con una furia incantata, nella nostalgia di quel Bach che non avrebbe mai affrontato. Era un virtuoso per disperazione Petrucciani, eccessivo per debito agli antenati napoletani, eppure prese “Estate” e ne fece una sommessa elegia, con le note del suo Steinway ovattate dal contrabbasso di Furio Di Castri e dalle spazzole di Aldo Romano, note come lacrime di cristallo che sgocciolano dall’anima di un artista che sapeva di non avere tempo per tutto quello che avrebbe voluto fare.

L’armonica era di Jean Baptiste “Toots” Thielemans, che a “Estate” era arrivato forse tardi, quasi settantenne, molto dopo aver accompagnato perfino Mina nella sigla di “Milleluci”, ma riuscì a acciuffare l’oscurità di quella musica fatta di vuoto e vertigine, scandendo nota su nota come se dipingesse, lasciando che la canzone volasse fuori dai solchi del disco, incompiuta e fragile.

Infine c’era un trombettista bello e infelice, che amava l’Italia. E a Milano c’era un club sul Naviglio Grande, chiamato Capolinea perché stava a ridosso del fine viaggio del tram 19. Ci andavano a suonare i migliori jazzisti del mondo e non nell’estate ma nell’autunno di quarant’anni fa ci venne a suonare Chet Baker col suo gruppo di allora, un flauto e un sax soprano oltre a pianoforte, basso e batteria. Il titolare del locale capì che sarebbe successo qualcosa e concordò la registrazione del concerto.

Al musicista americano non restava molto tempo, di lì a cinque anni lo aspettavano i suoi fantasmi ad Amsterdam, oltre la finestra di un albergo. Eppure quella sera, aprendo il concerto, suonò la versione più bella e straziante e tagliente e natalizia di “Estate”, aprendo e chiudendo una compunta sequenza di assolo dei suoi musicanti, come per una forma di saluto, come secondo un testamento. Fu allora che Bruno Martino, quasi vecchio e ormai dimenticato, seppe di aver scritto qualcosa che sarebbe rimasto. Oltre la dimenticanza degli umani, oltre la loro superficialità. La sua “Estate” è ancora qui, di là dal corso ingannevole e fraudolento del tempo che passa.

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