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19 marzo 2024
di Marco Patricelli 

Questione di lingua 

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Se il belcanto è nato nel Belpaese il merito non è tanto degli italiani, ma soprattutto dell’italiano. Italiano inteso come lingua, naturalmente. Solo le vocali possono essere infatti pronunciate in musica, e nessun idioma al mondo è musicale quanto la lingua di Dante. Quanto al chi, come, dove, quando e perché, occorre fare un tuffo nel passato e spostarci in un salotto di Firenze che passerà alla storia come Camerata de’ Bardi, perché è nel palazzo del conte Giovanni Bardi del Vernio che si compie un autentico sconvolgimento culturale e di stile.

 

Gli intellettuali che componevano quella raffinata combriccola – tra cui il liutista Vincenzo Galilei padre del più famoso Galileo, i musicisti Giulio Caccini, Emilio de’ Cavalieri, Ottavio Rinuccini, Jacopo Peri – si erano stancati di doversi districare all’ascolto delle sempre più complesse e cerebrali pagine di contrappunto, il punctus contra punctum (nota su nota e quindi voce contro voce) che aveva come risultato quello di rendere incomprensibile il testo. Per essere chiari e semplificare: le voci procedono in maniera orizzontale (melodicamente) e autonoma e quando si sovrappongono devono necessariamente attenersi a una serie di regole sempre più stringenti per risultare consonanti in senso verticale (armonicamente).

 

In questo inseguimento melodico il testo, nitido nella prima esposizione, diventa via via incomprensibile, se solo pensiamo a composizioni con ben 36 voci invece delle canoniche quattro (soprano, contralto, tenore, basso). Cosa accadde a Firenze in quel circolo lo spiega nel 1601 il compositore Giulio Caccini, con una sorta di sintesi di quel manifesto culturale che esaltava il “recitar cantando” e creava il teatro in musica: «Questi intendentissimi gentiluomini m’hanno sempre confortato, e con chiarissime ragioni convinto, a non pregiare quella sorte di musica che, non lasciandosi bene intendersi le parole, guasta il concetto et il verso, ora allungando et ora scorciando le sillabe per accomodarsi al contrappunto, laceramento della poesia».

 

 

Una rivoluzione copernicana delle sette note, esaltazione della melodia sostenuta dall’armonia. Il belcanto contiene la capacità e la voglia di stupire, di incantare, incarna le emozioni e le rende cristalline o bronzee a seconda del timbro vocale, esalta la tecnica verso l’arte, dà al barocchismo lo slancio dell’espressività e della recitazione. Eppure, più che istinto puro, è tecnica sopraffina: la vocalità non è timbro, ma si fa strumento per realizzare la purezza ideale e restituire le immagini letterarie col suono. È bellezza, come dice il nome. Che ha un disperato bisogno di vocali: solo con esse le note possono librarsi in aria, perché le consonanti possono al limite essere effetti armonici solo per poter arrivare alle vocali, sempre che non le ostacoli nel fraseggio. L’Italia, dunque, “bel paese là dove ‘l sì suona” (e non solo il si, naturale o bemolle) e dove il Dolce stil novo trova la sua consacrazione nell’arte di Euterpe che, se pure non nacque qui, sulla Penisola venne codificata per la scrittura e resa trasmissibile ai posteri.  

 

Wolfgang Amadé Mozart, che di musica se ne intendeva eccome, era assolutamente convinto che la lirica perfetta fosse in italiano, lingua dominante fin allora in regime di monopolio, ma fece il possibile e con straordinari risultati (“Il flauto magico”) per sdoganare una lingua consonantica come il tedesco, liquidò il francese come impossibile da mettere in partitura e non considerò neppure in ipotesi l’inglese oggi dominante con rock, pop e musica di consumo. Eppure è diventato un  luogo comune che i cantanti d’opera non fanno capire le parole che pronunciano, e che quindi il belcanto annichilisca la comprensione del testo pur essendo nato proprio per questo. Vero e falso. Luciano Pavarotti, ambasciatore del belcanto nel mondo, aveva serie difficoltà a leggere gli spartiti ma pronunciava esattamente le parole e con assoluta chiarezza. Oltre cinquecentomila persone accorsero nel 1993 al Central Park di New York per ascoltare, ammirare e applaudire l’erede incoronato di Enrico Caruso (il primo disco della storia l’incise lui) e Giuseppe Di Stefano, popstar del classico e poi classico prestato al pop.  

 

 

È invece vero che fior di cantanti spesso di seconda fascia nel secolo scorso, soprattutto se all’estero, facevano quel che volevano con le parole, piegandole, adattandole, inventandole addirittura e spacciando quel gramelot arruffone in italiano aulico. Ma quando se ne accorgevano, erano guai seri: più che gli impresari, che rischiavano di loro nell’allestire le opere, erano i loggionisti i cecchini implacabili di tenori, soprani, baritoni, mezzosoprani e bassi. Termini come “stecca” e “fiasco”, noti e usati in tutto il mondo, vengono dritti dritti dalla lirica. Come “bravo” e “bravissimo” e tutto il pacco dono musicale della lingua italiana: pianissimo, piano, mezzopiano, mezzoforte, forte, fortissimo, e poi andante, lento, allegro, appassionato, scherzo, vivace, sono i fuochi d’artificio di una festa tricolore prima che esistesse il tricolore. Dopo il Rinascimento è la musica ad aver portato sul Parnaso la lingua italiana e l’italianità, con i versi di  Metastasio e di Lorenzo da Ponte prima, Giuseppe Giacosa, Luigi Illica e Arrigo Boito poi, esperanto dei melomani, segno distintivo della cultura, lingua franca delle sette note. Puoi tradurre “preludi”, ma non allegro, e persino i compositori russi che scrivevano in cirillico usavano i caratteri latini sulla carta: non si cambia ciò che è nato perfetto.  

 

Contrariamente a quello che si può pensare, nessuna forma d’arte è stata popolare quanto la lirica, nessuna ha acceso gli animi come l’opera, antesignana del tifo calcistico e dei raduni oceanici delle popstar. Le piccionaie, l’anello più alto dei teatri a prezzi più bassi, erano le curve di oggi. Ci andavano tutti, e si usciva da una rappresentazione avendo messo a mente un’aria o una cabaletta, parole comprese, da canticchiare tornando a casa o durante il lavoro. I fautori di Giovanni Paisiello fecero passare un brutto quarto d’ora ai supporter di Gioachino Rossini, e allo stesso compositore pesarese, reo di aver proposto il “Il barbiere di Siviglia” di Beaumarchais già messo in musica con successo dal tarantino nel 1782, che sarebbe uscito assai male da quello scontro artistico di cui si era aggiudicato il primo round. Il 20 febbraio 1816 la prima al Teatro Argentina di Roma fu un disastro epocale che non ha eguali nella storia della lirica, e a nulla erano valse le accortezze di Rossini che non solo aveva chiesto il permesso a Paisiello, ma aveva pure cambiato il titolo in “Almaviva, o sia l’inutile precauzione”. Precauzione inutile. Fischi, urla, schiamazzi, rissa, persino un gatto nero in scena. Il preludio a un trionfo universale fu il disastro perfetto. 

 

 

Il mondo del belcanto era espressione della società dall’alto al basso e viceversa. A teatro si andava per ridere e sospirare, per divertirsi e provocare, per socialità di casta e per ambizione di ascesa e di uguaglianza, per amoreggiare nascosti dai velluti dei palchetti e per seguire l’opera e i virtuosismi dei solisti, ma anche per mangiare, gustare un sorbetto e ciarlare. Sul palco i capricci dei cantanti avrebbero fatto impallidire quelli delle rockstar nostrane e di importazione. Erano loro che assicuravano i pienoni, e tra maschi e femmine (ma il registro che dà il nome al cantante va sempre declinato al maschile: “il” soprano, non “la” soprano) in un primo tempo ebbero la meglio i castrati (non in senso letterale) i quali conobbero una stagione sfolgorante testimoniata dal mito stesso di Farinelli.

 

Talmente sopra le righe che facevano quel che volevano, capaci di introdurre nelle opere le arie in cui poteva rilucere la loro bravura e ipnotizzare in estasi mistica il pubblico con i virtuosismi vocali. Le arie di baule, che come il baule vero e proprio si portavano dietro per rivelarle sui palcoscenici, non di rado erano lunghe ed estenuanti, costringendo alla fine i compositori a codificare le cadenze (le parti virtuosistiche) invece di lasciarle alla libertà degli interpreti che sconfinavano spesso e volentieri nell’anarchia.  

 

 

Nell’Ottocento musicale il mondo si divise tra Giuseppe Verdi e Richard Wagner: belcanto contro wort-ton-drama, la musicalità della lingua di Dante contro le asperità della lingua di Goethe, la melodia pura contro il leitmotiv, la cantabilità totale contro la muscolarità, la “zum-pa-pa-musik” (come i tedeschi irridevano l’italiano per l’accompagnamento ternario delle arie) contro la ginnastica degli urlatori (come gli italiani contraccambiavano i tedeschi). Verdi, a ogni modo, è l’autore più amato e più eseguito ancora oggi al mondo, e tutto il resto rientra nella pura sfera estetica soggettiva. E certamente dà più brividi una pagina di Giacomo Puccini di quanto possa farlo un passo wagneriano. I musicisti esperti sostengono che una sinfonia di Mozart si può cantare dall’inizio alla fine, ma non altrettanto può farsi con una di Beethoven, il quale non a caso con l’opera non fu particolarmente brillante.

 

Non è quindi questo il metro se il canto è bello, cioè all’italiana, oppure no, se Violetta o Mimì siano sdolcinate e la walchirie no, se “Aida” sia più sfolgorante dell’“Oro del Reno”. Il melodramma ha conquistato il mondo con la sua spettacolarità e i suoi eccessi, mito nel mito, fonte di ispirazione del cinema e, non a caso, melodramma. Si pensi alle astruserie del teatro dell’opera di Manaus eretto nel cuore dell’Amazzonia come simbolo di civiltà nel paradiso degli alberi della gomma, raccontato pure dal regista Werner Herzog nel film “Fitzcarraldo”. E quale forza abbia avuto il belcanto nel portare la voce della cultura dappertutto quando non esistevano né la tv via satellite né la mondovisione né la pervasività banalizzante del web.

 

 

Ma anche quale importanza abbia avuto la lingua italiana alla quale la musica ha messo le ali per farla volare nel mondo. Non ce ne accorgiamo quasi più, ma nessun musicista di rilievo, sia nato in Europa o nel lontano Giappone (Seiji Ozawa) o nella misteriosa India (Zubin Mehta), può fare a meno di un’infarinatura di italiano, e nessun cantante lirico a prescindere può pensare di non impararlo. La lingua non mente, sullo Stivale e all’estero. Se il “do di petto” in realtà non esiste ed è un mito divenuto frase figurata, se nessuno ha mai visto un “acuto” mandare in mille pezzi un bicchiere di cristallo, la “primadonna” che arriva dal “recitar cantando”, uomo o donna che sia, si esibisce continuamente su tutti i palcoscenici della notorietà, dai campi di calcio alla politica nazionale e internazionale. Potenza del belcanto, di fronte al bello e anche alle stonature della vita. 

 

 

 

 

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