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7 giugno 2022
di Maria Rita Nocchi

Che bel Mezzogiorno! A Milano 

Miart 2022 - In primo piano scultura di Pietro Consagra
Miart 2022 - In primo piano scultura di Pietro Consagra
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Benvenuti al Sud! Per il battesimo di Mag abbiamo scelto di raccontare i tesori del Mezzogiorno italiano. I miei colleghi si sono fatti avanti con idee e proposte pertinenti. Io sono di natura un po' svagata e un po’ Bastian contrario. Ho suggerito, quindi, di scrivere di un evento che si svolge al Nord. Ma che accoglie anche molti artisti del Sud.

Ogni primavera faccio un salto a Miart, la fiera internazionale di arte moderna e contemporanea di Milano. Quest'anno si è tenuta dal 1 al 3 aprile, organizzata da Fiera Milano, ed è stata la prima fiera d’arte del 2022 in Italia. Dopo i due anni di pandemia (nel 2020 si è svolta solo online e nel 2021 in edizione ridotta, a settembre) volevo vedere se questa manifestazione, intitolata simbolicamente 'Primo movimento' poteva segnare un rilancio della cultura in città. E perché no, riportare anche quel pizzico di glamour che non guasta mai. Non sono rimasta delusa. La prima cosa che mi è balzata agli occhi è stato il successo di pubblico e il ritorno dei collezionisti internazionali.

“Abbiamo avuto compratori arrivati dal Messico, dall’Argentina, dalla Turchia, dagli Stati Uniti – conferma soddisfatto Nicola Ricciardi, curatore della Fiera per il secondo anno consecutivo.

“E’ ovvio che la parte del leone l’hanno fatta gli europei – soprattutto i belgi, gli svizzeri, i francesi, e anche gli spagnoli che di solito non vengono mai a Miart. Quest’anno dovevamo riaffermarci come fiera credibile e tornare a fare business. Tutti i galleristi hanno parlato di ottime vendite, hanno confermato di essersi ripagati il costo dello stand e anche il viaggio e il trasporti dei quadri. Su questo dobbiamo fare leva per convincere un numero sempre più alto di gallerie straniere a partecipare a Miart. Questo è il nostro obiettivo, riportare un parterre di gallerie importanti a Milano”.

Ci chiediamo quanto sia stato venduto. La domanda è precisa, la risposta è a spannometro. “Non posso dare un ordine di grandezza delle vendite – spiega Ricciardi  - davvero non lo so, perché le trattative iniziano in Fiera e vanno avanti per settimane, anche mesi. Ma di certo il sentiment dei galleristi è stato estremamente positivo”.  Lo conferma anche un fatto curioso accaduto nei giorni della Fiera. “L’anno scorso venivo chiamato al telefono ogni dieci minuti dai galleristi. Ognuno di loro mi segnalava un problema: chi con le luci, chi con il bar, chi perché un collezionista non riusciva ad accedere alla mostra. Mi sembrava di essere diventato un elastico. Quest’anno, a Fiera iniziata, il mio cellulare ha smesso di suonare all'improvviso - sorride Ricciardi  - e questo mi fa pensare che i galleristi abbiano avuto di meglio da fare, cioè hanno lavorato e venduto”.

Sono andate a ruba le opere di pittura di piccolo formato, con un prezzo nel range tra i 20 e i 50mila euro. Due importanti gallerie straniere che partecipavano per la prima volta a Miart – la Klemm’s di Berlino e Misako&Rosen di Tokyo hanno venduto tutto. Hanno sofferto un po' le opere iconiche del Novecento che costano centinaia di migliaia di euro – i Fontana, i Manzoni, Burri, De Chirico.

“Non ci sono state vendite con il botto – ammette Ricciardi – e complessivamente il numero degli investimenti importanti è stato più basso rispetto al 2019. Ma c’è stata la voglia di comprare un numero maggiore di opere. E soprattutto il collezionista ha comprato da gallerie che non erano tra i suoi contatti abituali. Questo è fondamentale, perché la Fiera è un luogo dove si devono fare nuovi contatti”. I nuovi contatti sono stati agevolati dalla disposizione degli stand. Era facilissimo perdersi, vista la struttura a labirinto. E quindi incontrare persone e vedere immagini insolite.

Gli artisti emergenti, un po’ trascurati dai collezionisti nel 2021, quest'anno sono stati valorizzati.

La loro sezione, denominata 'Emergent' per l'appunto, e curata da Attilia Fattori Franchini, è stata collocata eccezionalmente all'ingresso del percorso espositivo, costringendo i visitatori ad attraversarla prima di arrivare a 'Established', la sezione principale. Una scelta strategica che ha pagato. "Quest'anno abbiamo detto ai giovani: vi portiamo all'ingresso, ma voi vestitevi bene - scherza Ricciardi - infatti hanno portato dei book di opere molto colorati e freschi e hanno venduto bene. Il riscontro è stato positivo, sia per le tredici gallerie italiane, tra le quali  Martina Simeti, Una Galley, Ada, Gilda Lavia, sia per le sette straniere".

Attilia Fattori Franchetti conferma che "c'è stata una volontà particolare da parte della Fiera e di tutto il team dei curatori di aiutare chi si trova all'inizio del percorso professionale". Tra gli artisti emergenti italiani più innovativi la curatrice ha citato Diego Volandris, con le sue pitture che "in maniera fantasiosa rompono il concetto di realtà guardando alle varie possibilità figurative", Clarissa Baldassarri e "le sue ceramiche pensate come un'installazione frammentata", Pamela Diamante, "che ritrova pietre preistoriche che hanno immagini figurative al loro interno e poi fa una ricerca fotografica ricreando lo stesso paesaggio delle pietre", Jacopo Mazzetti, "che ha creato sculture indossabili" e poi Davide Stucchi, Costanza Candeloro. Rispetto ai loro colleghi europei, gli artisti italiani esordienti hanno più difficoltà a farsi conoscere ed apprezzare all'estero, "perché mancano le istituzioni", osserva Fattori Franchetti, che vive a Londra.

"La forza sta nelle gallerie che li portano in fiera, e c'è sempre tantissimo interesse, perché gli italiani giovani sono bravissimi e anche le accademie sono ottime. Però è difficile farli venir fuori, anche se adesso le cose stanno un po’ cambiando. Abbiamo ad esempio l'Italian Council, un bando del ministero della Cultura, che supporta tantissimo i giovani artisti. E' una cosa bellissima. Anche il Macro e il Castello di Rivoli fanno focus sui giovani. Ma c'è bisogno di più".  

Fucile e scalpello 

Missilista. Paracadutista. Cecchino. A questo punto dal pubblico partirebbe un “a Ramboo”. E invece no. Vi sto parlando di una graziosa, leggiadra ed elegante creatura di 37 anni che si chiama Pamela Diamante. Segni particolari, scultrice. A 17 anni si è arruolata nell’esercito per ribellarsi ai genitori che le vietavano gli studi artistici. E’ entrata nel corpo dei paracadutisti, è diventata missilista e perfino una sniper esercitandosi con una squadra speciale a Capo Teulada in Sardegna, ha partecipato alle missioni umanitarie organizzate in Bosnia Erzegovina e in Kosovo. Tutto questo mentre continuava a coltivare il suo sogno: la sera, quando rientrava a dormire nella camerata, leggeva i libri di arte. Quattordici anni fa ha abbandonato per sempre i fucili. Si è iscritta all’Accademia di Belle Arti di Bari, e nel 2016 ha conseguito il diploma in scultura.

Oggi Pamela Diamante, pugliese, classe 1985, è ritenuta dai curatori e dai critici una tra le artiste italiane emergenti più talentuose.

A Miart, la fiera milanese dedicata all’arte moderna e contemporanea, dove l’ho incontrata, Pamela, portata dalla galleria Gilda Lavia di Roma, ha vinto il premio istituito dal gruppo immobiliare Covivio. Le è stata commissionata un’opera site-specific, che verrà installata a settembre in un prestigioso edificio facente parte del progetto di riqualificazione urbana “Symbiosis”, nella zona sud di Porta Romana a Milano.  

Dal 18 marzo, inoltre, è in corso una sua mostra personale – Stato di flusso – presso la fondazione Arnaldo Pomodoro a Milano. E la Banca europea per gli investimenti, la Bei, che ha sede a Lussemburgo, tre anni fa ha acquistato e inserito in collezione i primi cinque esemplari di ‘Fenomelogia del sublime”, gli originali lavori realizzati dalla Diamante, prendendo spunto dal ritrovamento di alcune pietre preistoriche presenti nei colli fiorentini, menzionate per la prima volta in documenti che risalgono alla famiglia dei Medici, grandi collezionisti di pietre rare. 

Una storia davvero singolare, quella che Pamela racconta a MAG. “I miei genitori volevano che studiassi per trovare un lavoro vero, non credevano che l’arte potesse darmi un sostentamento. Un amico, conoscendo il mio spirito di avventura, mi ha suggerito di arruolarmi. Ho seguito il suo consiglio. Sono entrata nell’esercito a 17 anni, e ci sono rimasta per cinque anni. Erano i primi corsi aperti alle donne, inutile dire che c’era ancora un forte spirito patriarcale. I miei colleghi cercavano di mettermi in difficoltà, ma non ci sono mai riusciti. Il fatto di avere uno stipendio mi consentiva di andare nei week end a visitare i musei e le mostre di arte. Ne ricordo alcune bellissime, tra cui Picasso e Dalì. Pian piano ho cominciato a costruire una mia formazione, mentre al mattino mi addestravo al poligono con i missili filoguidati e sparavo con i fucili di lunga gittata.

L’esperienza più formativa è stata andare in missione in Bosnia, pochi anni dopo la fine del conflitto. Lì ho capito che cosa è stata la guerra nei Balcani. E devo dire che quel senso di drammaticità è entrato nei miei lavori artistici”.

Quando Pamela ha lasciato l’esercito e si è iscritta all’Accademia di Belle Arti di Bari, era più anziana di dieci anni rispetto alle altre studentesse. “Questa cosa un pò mi pesava, però avevo una maturazione diversa e ho cominciato a lavorare come assistente curatoriale. Questo mi ha consentito di capire come i grandi artisti lavorano ‘sul campo’. Nel momento in cui mi sono sentita pronta, ho iniziato a creare le mie opere e ho fatto un percorso veloce a livello professionale. Mia madre adesso rimpiange di avermi negato la possibilità di studiare arte, ma chissà cosa è stato meglio…”.

Pamela usa attualmente tutti i linguaggi artistici, però non ama la pittura. “Mi sembra una forma espressiva limitata. Preferisco misurarmi con gli spazi e lavorare su installazioni di grandi dimensioni che mixano la scultura, il video, il suono. La mostra in corso alla Fondazione Pomodoro (fino al 24 giugno) è uno degli esempi di come abbia cominciato a lavorare ‘ibridando’ tutto. Ho creato un’opera che riflette sul tempo difficile che stiamo vivendo, sospesi tra la pandemia e la guerra, e ho inserito un’immagine della Menade danzante di Skopas, una tra le più belle sculture dell’antichità. Il risultato è stato di grande impatto emotivo. Mi sono accorta che alcune delle persone venute in visita avevano le lacrime agli occhi”.

Una delle sue convinzioni è che l’artista oggi debba riflettere seriamente sulla sostenibilità ambientale. Il progetto installativo che ha in mente per l’opera commissionata dal gruppo Covivio  prevede qualcosa che si integri nell’ambiente, una sorta di simbiosi tra l’uomo, la natura e l’architettura. “l’opera per ‘Symbiosis’ rifletterà concettualmente un dialogo in continua trasformazione tra natura/cultura, sarà un passaggio importante. Spero che arrivino altre commissioni, nel futuro”.   

Tra le produzioni di Pamela che hanno avuto più successo a Miart ci sono quelle con le pietre ‘paesine’. 

Queste pietre, formatesi nell’epoca del Miocene, si trovano solo sui colli fiorentini e hanno un particolarità:  all’interno contengono immagini che assomigliano a grotte, onde marine, rocce.  Qualcosa di molto raro, fonte di ispirazione per l’artista che ha pensato di riprodurle in quadri che sembrano fotografie, ma non lo sono. “Usando gli algoritmi, mi sono impegnata nella ricerca dell’immagine ‘gemella’. Non ho creato forme nuove, mi sono limitata a interpretare quello che già c’era nella natura. E’ stupefacente che dei sassi racchiudano immagini così poetiche. Qualcosa di simile alla pietra di sogno che esiste in Cina”. E pensare che tutto è nato da un incontro casuale. “Ero a Firenze per una visita all’Opificio delle pietre dure e ho conosciuto un professore di educazione tecnica in pensione, appassionato di geologia, che ha dedicato la sua vita alla ricerca di queste pietre”, ricorda Pamela. “I primi manoscritti in cui vengono menzionate risalgono all’epoca della famiglia Medici che ha governato Firenze dal 1500. E’ stato lui a farmele conoscere”. 

Se c’è una cosa di cui Pamela Diamante non può fare a meno sono i viaggi. Ha girato tantissimi paesi, per cercare nuovi stimoli e spunti. Ma ogni volta torna a casa, a Bari, e non ha pensato mai di lasciare la sua terra. “In molti mi chiedono se sia stato difficile affermarmi, venendo dal Sud. Certamente vivere a Roma o Milano consente di godere di un’offerta culturale più ampia che altrove. Ma io recupero viaggiando. Il mio restare al Sud è una forma di resistenza. E’ importante essere presenti, altrimenti le dinamiche di abbandono non cambieranno mai”.

 

 

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