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13 settembre 2023
di Alessandro Galiani

L'oro bianco di Carrara

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Carrara è un crocevia tra la Toscana, la Liguria e l'Emilia, dove si parla un accento strano, il carrarino, che non è toscano ma apuano: una lingua aspra, da montanari. La città la chiamano 'oro bianco', per via del marmo, la pietra immacolata, immortale, che nel corso di duemila anni ha dato la materia prima ai più importanti monumenti e ad alcune delle più belle sculture della civiltà occidentale. I romani, che furono i primi ad estrarre questo marmo: lucente, pregiato, dalle venature grigie, sottili, eleganti, li chiamavano liguri apuani, un popolo fiero, tosto che i romani per piegarli dovettero deportarli in massa.

Ma tant'e, massesi e carraresi sono ancora oggi divisi, specialmente perchè Massa si è presa il capoluogo e tutti i servizi strappandoli a Carrara, che sino a inizio Novecento era la vicina più bella ricca e famosa. Insomma, da queste parti la gente è sempre in lotta con le asperità della natura da cui dipende ogni fortuna, perchè il marmo è bello ma non è certo fertile e il monte spesso si prende più di quello che dà.

I cavatori sono uomini che da secoli sono abituati a scavare, a bucare le montagne, a tagliare le rocce con arnesi rudimentali, legati alle funi, come scalatori: un lavoro duro, pericoloso, per via delle schegge di roccia che schizzano da tutte le parti, delle frane e della polvere di marmo, che entra nei polmoni e li pietrifica.

Adesso, non è più come un tempo, quando alle cave a lavorare all’estrazione del marmo c’erano oltre 10.000 operai. E’ stato così per secoli, dai tempi dei romani agli anni Settanta del ‘900, quando sono arrivate le macchine. Ora nel bacino di Massa-Carrara ci sono circa 100 cave e nella provincia operano circa 500 addetti che lavorano al monte, direttamente nelle cave, operando con ruspe gigantesche, tagliatrici a catena, macchine a filo diamantato, nonchè gru capaci di sollevare blocchi di marmo di decine di tonnellate ad altezze di diversi metri. A questi cavatori, bisogna poi aggiungere altre 400 ditte attive nella lavorazione al piano, che contano 2.000-2.500 lavoratori.

Insomma, in 30 anni il mondo del marmo è del tutto cambiato: l’intera filiera non sono più solo cave ma miniere. La maggior parte della roccia estratta non finisce nelle sculture e non alimenta più il settore artigianale locale. Parte per l’Asia oppure, ridotta in pasta, finisce nei dentifrici, nella carta e in altre decine di prodotti.

 In 30 anni il mondo del marmo è del tutto cambiato: l’intera filiera non sono più solo cave ma miniere

È il business del carbonato di calcio. Un’attività dominata dalla multinazionale svizzera Omya che possiede un grosso stabilimento industriale a Carrara e produce questa farina di marmo. Inoltre dal 2014 la famiglia di Osama Bin Laden, l’ex leader di Al Quaeda, controlla gran parte dell'estrazione dei marmi di Carrara, tramite la Cpc Marble, un’azienda con sede a Cipro, la quale ha comprato la società che controlla Marmi Carrara e che ha la concessione di un terzo delle cave delle Alpi Apuane.

Per l'operazione i Bin Laden hanno sborsato 45 milioni di euro, più o meno quanto la squadra di calcio saudita Al-Hilal ha versato alla Lazio per l'acquisto del centrocampista serbo Sergei Milinković-Savić. Insomma, i marmi di Carrara e i loro oltre duemila anni di arte e di storia, fanno ormai parte di un grande business globalizzato e la città di Carrara, pur restando la capitale mondiale del marmo, è sempre meno padrona del suo oro bianco, gran parte del quale finisce sotto la voce 'prodotti chimici', trasformato in carbonato di calcio, mentre quello destinato ad usi artistici, è quasi insignificante.

I Bin Laden continuano a estrarre il marmo in blocchi a Carrara ma poi lo lavorano coi robot soprattutto in Cina, per usarlo come materiale edile nei palazzi, nelle ville e nelle moschee che costruiscono in tutto il mondo. "La quota in assoluto maggiore di marmo grezzo finisce in Cina e, in misura minore, in India, mentre il marmo di qualità inferiore viene esportato nei paesi del bacino mediterraneo" spiega Massimo Marcesini, ricercatore dell’Isr. Molti imprenditori del marmo carraresi si sono trasferiti in Asia, dove la domanda è molto alta, e operano anche loro un po' come i Bin Laden.

A Carrara sono restate alcune ditte storiche, tra cui spicca lo Studio Nicoli, che ha duecento anni e coi suoi edifici occupa oltre metà della grande piazza XXVII Aprile, dove nel 1878 i Nicoli hanno trasferito i laboratori, gli uffici, la foresteria per ospitare gli artisti, l’abitazione familiare e i magazzini. Il fondatore degli Studi Nicoli nel 1836 è Tito, ornatista e scultore, la cui opera è portata avanti dal figlio Carlo, scultore e imprenditore del marmo, che nel 1878 fa costruire la casa-laboratorio di piazza XXVII Aprile, dove mette al lavoro decine di operai e sforna statue e ornamenti, dando un volto di marmo a un bel pezzo di Italia Risorgimentale ed  esportando statue e architetture in tutta Europa, nelle Indie orientali, a Bangkok, piuttosto che in Australia, o a Manila ma più di tutto in Spagna e in Sudamerica, in stretto contatto coi Nicoli di Madrid.

Sono dunque i rappresentanti di questa famiglia ad ereditare la grande tradizione artistica del marmo di Carrara, quella di Michelangelo, il quale ha probabilmente scritto le pagine più gloriose di questa attività a cavallo tra arte, industria e lusso.

Michelangelo, nell’arco di oltre 30 anni, soggiorna spesso per mesi nelle cave sopra Carrara, sulle Alpi Apuane, dove sceglie personalmente i blocchi di marmo da cui ricaverà molte delle sue opere, conosce, uno per uno, i rudi cavatori, gli scalpellini e i trasportatori, coi quali è in affari e che paga profumatamente. Papa Leone X, un Medici, lo costringe a rifornirsi di marmo nella vicina Pietrasanta, nelle cave medicee, ma lui preferisce Carrara, benchè i rapporti coi cavatori carraresi siano spesso tesi e difficili. Nel 1505 per trovare il marmo che gli serve per scolpire le statue del mausoleo di Giulio II a San Pietro, Michelangelo resta a Carrara otto mesi e imbarca decine di ‘carrate’ (una misura di marmo equivalente alla quantità di pietra che ci vuole per riempire un carro trainato da due buoi).

Michelangelo, nell’arco di oltre 30 anni, soggiorna spesso per mesi nelle cave sopra Carrara, sulle Alpi Apuane, dove sceglie personalmente i blocchi di marmo da cui ricaverà molte delle sue opere, conosce, uno per uno, i rudi cavatori, gli scalpellini e i trasportatori, coi quali è in affari e che paga profumatamente

Nel contratto Michelangelo specifica che i marmi devono essere bianchi e senza peli, cioè senza crepe. La quantità di marmo è tale che i cavatori creano una società per accontentare lo scultore e gli costruiscono una strada che dalle montagne scende fino a valle, dove quelle tonnellate di pietra vengono imbarcate per Roma. Tutto quel marmo finirà ammonticchiato a piazza San Pietro fino alla morte di Giulio II, che avverrà nel 1515, quando il suo successore Leone X smetterà di pagare Michelangelo per la tomba di un ex pontefice e gli ordinerà di pensare invece a un progetto per la chiesa di San Lorenzo a Firenze, imponendogli tra l’altro di rifornirsi di marmo in Versilia, sul monte Altissimo, nei territori dei Medici, dove Michelangelo non si troverà più a suo agio come a Carrara.

L’erede di Giulio II, Francesco Maria della Rovere, duca di Urbino, impone allora allo scultore di rispettare il contratto per il quale è già stato profumatamente pagato dallo zio papa e di terminare a Roma il mausoleo di Giulio II, dandogli sette anni di tempo per finirlo. L’impresa è titanica e, ovviamente, non va in porto, per cui tra il 1526 e il 1532 il progetto iniziale è ridimensionato e si passa da 22 a 10 statue, tra cui l’enorme Mosè, da collocare non più nella basilica di San Pietro ma nella chiesa di San Pietro in Vincoli. Quest’opera, molto meno ambiziosa, sarà terminata solo nel 1545.

All’epoca di Michelangelo il lavoro degli artisti e dei cavatori non è molto diverso da quello che si continuerà a fare nei secoli successivi. Michelangelo è uno scultore che si definisce un artista “del levare”, per cui toglie il marmo superfluo, liberando così la statua che è imprigionata dentro il blocco di marmo. Per gli studi preparatori disegna dei bozzetti sui quali fissa l’idea, poi, praticando dei forellini, disegna sul marmo la sagoma della futura statua e inizia a scavare il materiale con la ‘cagnaccia’. Poi passa alla sbozzatura, con cui inizia a dar forma alla statua, quindi alla livellatura, a cui segue la rifinitura, che spesso delega agli assistenti.

Il lavoro dei cavatori che gli riforniscono la materia prima è durissimo, mal pagato e molto rischioso. C’erano i tecchiaioli che dovevano calarsi appesi con delle funi davanti alle pareti per togliere le parti pericolanti, o per verificare da vicino la qualità del marmo da estrarre. Una volta pronti i blocchi dovevano essere portati a valle, operazione assai pericolosa, chiamata lizzatura, che consisteva nel fissare il blocco di marmo ad una slitta di legno, trattenuta da un sistema di funi scorrevoli, che potevano allentarsi, oppure capitava che i canapi, se male assicurati o di cattiva qualità, si spezzavano, finendo per schiacciare qualche cavatore.

Michelangelo si portava i blocchi a Roma, dove li lavorava, ma poi, sempre più, gli artisti si affidano ai laboratori locali, dando i loro progetti a ditte come quella  dei Nicoli, che fanno la modellatura, la sgrossatura, la messa a punti e in certi casi perfino la finitura, e in taluni casi circoscritti eseguono l’opera stessa, al servizio di una clientela altolocata ed esigente.

Carlo senior si forma nella bottega dello scultore toscano Giovanni Duprè e si afferma come artista a livello internazionale, nonché come diplomatico. Poi Gino, il figlio di Carlo, allo scadere del secolo, pur essendo talentuoso si dedica maggiormente agli affari. I Nicoli dopo l’Unità d’Italia sono coinvolti nella decorazione della grande Galleria di Napoli, mentre molti artisti anche dall’estero si rivolgono allo studio inviandogli foto e dagherrotipi dei loro progetti affinchè siano trasformati in opere d’arte. A Gino succede Ruggero, laureato in economia, che non pratica mai personalmente l'attività artistica.

Michelangelo si portava i blocchi a Roma, dove li lavorava, ma poi, sempre più, gli artisti si affidano ai laboratori locali, dando i loro progetti a ditte come quella  dei Nicoli, che fanno la modellatura, la sgrossatura, la messa a punti e in certi casi perfino la finitura, e in taluni casi circoscritti eseguono l’opera stessa, al servizio di una clientela altolocata ed esigente.

Tra il 1908 e il 1911 il futurista Enrico Prampolini, cugino del Nicoli, apporta aria nuova ai locali di famiglia e introduce nella scultura il linguaggio astratto delle avanguardie che nei laboratori di Carrara è malvisto. I Nicoli invece accettano la sfida e sono tra i pochi studi a sopravvivere a quel mutamento epocale, accogliendo le stravaganze delle avanguardie e rimanendo famosi nel mondo per la lavorazione su pietra.

Negli anni Trenta arrivano allo studio grandi nomi del calibro di Mario Sironi, Arturo Martini e altri, come Fausto Melotti, che frequentano lo studio e, ciascuno a suo modo, portano avanti ricerche ed esperimenti, che segnano il confine tra una generazione d'avanguardia e il ritorno all'ordine voluto dal fascismo.

“Arturo Martini – racconta Francesca Nicoli, attuale titolare della ditta – ha vissuto a lungo qui da noi, nella foresteria, dove ha scritto ‘La scultura lingua morta’”, che pubblicherà a Venezia, in cinquanta copie, nel 1945. “E' paradossale che questo artista, uno dei più grandi scultori italiani contemporanei, scriva proprio a casa nostra, nel tempio della scultura, che questa forma d'arte è una lingua morta. Anche se l'ormai ex accademico lo scrive come reazione alla scultura monumentale fascista, mai previsione poteva essere più sbagliata di quella: e mai come oggi c'è voglia di scultura". "Martini, racconta Francesca, ricordando le storie che ha sentito dal padre Carlo junior (per non confonderlo con l'altro Carlo, vissuto quasi un secolo prima) - era un tipo strano, irascibile. Viveva e lavorava spesso da noi e in camera sua voleva che lo rifornissimo di di  damigiane di vino e cdi tante cipolle.

Sotto la sua spinta si ebbe un vero stravolgimento della tecnica di lavorazione del marmo. Ne la 'donna che nuota sott'acqua' che eseguì nei nostri laboratori, a un certo punto, quando la statua era praticamente finita, chiese lo scapezzatore, che è un martello da cava che non serviva per le finiture ma per tagliare i pezzi grossi del marmo, gli angoli. Gli operai nel sentirlo si spaventano, l’opera era già stata lucidata a specchio e hanno pensato: ‘Il maestro è impazzito, ha bevuto’. Per cui si rivolgono corrono in ufficio e si rivolgono a mio nonno, che però lo ha lasciato fare, perché l’ultima parola spetta sempre all’artista. Perciò è finita che gli hanno dato lo scapezzatore e che il maestro lo ha puntato contro la statua, tagliandole la testa e facendola ruzzolare giù. L’intento di Martini era quello di rinnovarsi, di uscire dalle strettoie retoriche e celebrative del linguaggio artistico di regime. Ed in effetti aveva ragione lui, visto che quella statua è diventata un capolavoro ed è stata venduta per una fortuna da Sotheby's”.

"Durante il fascismo – racconta Francesca – il nostro Studio è entrato in crisi, dato che non era più possibile esportare nei mercati internazionali come avevamo sempre fatto. Dopo la guerra le cose sono tornate alla normalità. Tuttavia, intorno ai primi anni Cinquanta, in famiglia molti erano in dubbio se continuare a lavorare il marmo o chiudere tutto. Mio padre Carlo studiava da avvocato e stava preparandola sua tesi, discussa a Pisa nel ’53. Un giorno si affaccia e vede un uomo di grande stile, che sta fumando un sigaro toscano. Era Henri Moore". Il grande scultore inglese ha poco più di 50 anni ed è un amante dell'Italia e di Firenze.

Moore è un genio dell'astrattismo e le sue forme sono note in tutto il mondo, anche se, ricorda Francesca, “mio padre ricordava spesso di una statua gigante donata alla città di Firenze, che però l'ha tenuta chiusa, nascosta in un magazzino per almeno quarant'anni”. "Moore – aggiunge - era un vero gentleman e mio padre gli parlò delle sue perplessità, sulla fine della proprietà, che poi era l’argomento della sua tesi di laurea, e di quelle teorie di Martini sulla morte della scultura, con le quali sembrava predire, in generale, la fine di tutto il nostro mondo tutto.

Allora lo scultore al giovane avvocato, immerso nell'attività legale, predisse che il marmo non era destinato a morire ma sarebbe stato la materia del futuro, e anche il suo futuro. Gli disse: 'L'avvocato lo può fare chiunque ma solo tu puoi portare avanti questa tradizione di famiglia'. Così mio padre abbandonò l'avvocatura per raccogliere il testimone di un laboratorio che, oltre a Moore, è riuscito a far sentire a casa artisti famosi nel mondo come Louise Bourgeois e Jenny Holzer. E intorno al 2000, quando io ho finito l'Università, mio padre ha fatto a me lo stesso discorso che Moore aveva fatto a lui, convincendomi a portare avanti la sua attività. Mi disse: ‘stai lì a spaccare il capello in quattro, all'Università, ma qui puoi capire il significato vero della vita e il mondo intero".

“Io gli ho risposto che accettavo e in questi anni è stata dura ma mi sono divertita a lavorare con gente come Vanessa Beecroft o Jan Fabre, che non sono artisti tipicamente da marmo”. La Beecroft realizza ‘tableau vivant’, ovvero coreografie in cui usa i corpi di giovani donne nude, mescolando danza, luci e musica, mentre Fabre è un artista visivo, dallo stile eccessivo. Un altro con cui Francesca ha lavorato è Anish Kapoor, uno scultore britannico di origine indiana ed ebreo irachena, che usa materiali come il granito, il calcare, il marmo, il legno e il gesso per creare oggetti dalle forme enigmatiche, geometriche e molto colorate.

"Sul pavimento qui dell'ufficio - ricorda - Anish ha realizzato un modello esecutivo disegnandolo direttamente sul pavimento, per cui per anni non abbiamo mai potuto pulire per terra per non perdere l’opera di un grande artista che, a seconda di come la guardavi, sembrava l'infinito". Anche l’architetto, scultore e pittore spagnolo Santiago Calatrava ha lavorato con Francesca. “Lui – spiega – stava aggiustando la traballante linea della metropolitana centrale di New York e mandava qui dei suoi aiutanti molto esigenti. Anche perché lui voleva realizzare una scultura fatta di dischi sottilissimi e molto fragili, che era una sorta di sfida ai limiti stessi del materiale”. Michelangelo Pistoletto, spiega Francesca, “è un altro artista che è venuto più volte da noi nel corso di vari decenni. L’ultimo lavoro l’abbiamo realizzato 2 o 3 anni fa e riguardava un’installazione di oltre 70 metri di lunghezza, che è stata inviata come dono dell’Italia all’Onu”. 

Inoltre, “ricordo negli anni Settanta, delle altre sculture monumentali alte 6-7 metri, come il Dietrofront, che è a Porta Romana a Firenze: un colosso non finito, non lucidato, di travertino, perché altrimenti non sarebbe arte povera come quella che voleva lui. La statua rappresenta una donna col suo doppio poggiato sulla testa: la prima volge lo sguardo verso l'esterno, la seconda guarda verso la città, come a collegare chi rimane e chi parte. E’ un gigante resistentissimo, con una struttura di acciaio Inox che affonda un metro e mezzo sottoterra, tanto che una notte un ubriaco l’ha investita con la sua auto a tutta velocità, senza neanche scalfirla, a parte una crosticina che abbiamo riattaccato con un po’ di mastice”. Un altro artista che ha lavorato allo Studio Nicoli è l'inglese John Isaacs, il quale ha realizzato in marmo di Carrara, una grande Pietà di Michelangelo velata.

"Con John - dice Francesca - abbiamo fatto qui la sua Pietà, che è stata esposta alla Galleria di Massimo Minini di Brescia, che poi l'ha concessa alla Collezione Paolo VI di Concesio, il museo che espone la raccolta d'arte appartenuta a papa Montini". L'opera, ultimata nel 2014 e intitolata ‘The architecture of empathy’ ci parla “del nostro desiderio di inventare la vita con un'opera d'arte”, come è scritto nel catalogo della Collezione Paolo VI.

In realtà, come spiega Marina Wallace, curatrice di mostre di arte a Londra e Roma, già alla Central Saint Martin’s di Londra, nonché amica di Isaacs, la sua statua è un po' il 'canto del cigno' dell'epoca d'oro di Carrara, quella di Michelangelo, del Rinascimento, di un’arte unica e irripetibile. “Isaacs – commenta Marina Wallace - non a caso si è ispirato alla Pietà di Michelangelo, che però ha ricoperto con un velo di marmo, sotto il quale scorgiamo appena la famosa statua. Ne intravediamo la sagoma, le proporzioni, la riconosciamo senza vederla, anche perchè è un'opera talmente nota che non c'è neanche bisogno di mostrarla.

Anzi, Isaacs la copre, la nasconde, come a sigillarla, a chiudere un'epoca”. A questo proposito Francesca Nicoli, ci tiene a precisare che “Isaacs ha coperto la Pietà riferendosi al surrealismo e ad artisti come Christo e Jean-Claude, che hanno impacchettato monumenti e palazzi interi. Inoltre questa è una polemica superata da almeno 70 anni, perché già negli anni Cinquanta tentarono di introdurre materiali moderni, come vetro, cemento armato e soprattutto la plastica e le resine sintetiche e questi materiali oggi sono in netta ritirata rispetto alla pietra naturale”.

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