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27 febbraio 2024
di Lidia Lombardi

Gioco di sguardi

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Lei guarda lui, intensa, ipnotica, gli occhi glieli caccia dentro senza pudore. Nell’altra opera lui guarda lei, alle spalle, protettivo, premuroso, succube: ma lei occhieggia civettuola davanti a sé, una calamita vezzosa per lo sconosciuto che dall’esterno la ammira.

 

Il doppio gioco di sguardi è in due capolavori della pittura affiancati per la prima volta in una mostra ai Musei Capitolini di Roma: sono “Il parasole” di Francisco Goya e “Buona ventura” di Michelangelo Merisi da Caravaggio. Il primo proveniente dal Museo del Prado (prestito in virtù di uno scambio con “L’anima beata” di Guido Reni esposto a Madrid), l’altro facente parte delle collezioni della pinacoteca romana. L’esposizione – che resterà allestita fino al 25 febbraio 2024 ed è promossa dalla Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali – si intitola “Goya e Caravaggio: verità e ribellione”.

 

 

Perché, delle due opere, realizzate l’una 180 anni prima della seconda (1597 “Buona ventura”, 1777 “El Quitasol”), si evidenzia la ricerca innovativa e anticonvenzionale dei due giovani artisti che, appunto nell’abbandono del classicismo e della “maniera accademica”, aderiscono tout court al realismo. E fa parte di questo realismo il gioco psicologico degli sguardi. In entrambe, due sono i protagonisti, un uomo e una donna. E in entrambe la figura femminile svolge – ce lo dicono gli occhi – un gioco di seduzione verso l’altro. Il quale resta soggiogato, vittima di un raggiro. E poi, il contesto: una strada cittadina – s’intuisce nella Roma corrusca di fine Cinquecento, dove i due si incontrano per caso, abbigliati con precisione fotografica come dettava la moda dell’epoca; uno sfondo verde, bucolico, nell’opera spagnola, in primo piano la signorina fiera dell’abito, del mantello, ma soprattutto degli “accessori” da alta società: il cagnolino poggiato in grembo e soprattutto l’ombrellino, irrinunciabile per le dame dell’Illuminismo, attente a proteggere il candore dell’incarnato dai raggi del sole. Solo che a fare ombra sul visino della giovane non è ella stessa ma una sorta di cavalier servente che impugna il parasole alle sue spalle. Lei non lo degna di uno sguardo, ma osserva fuori dal dipinto, chissà se qualcuno che sta per raggiungerla oppure i cento e cento che l’ammireranno immobili davanti alla tela, hic et nunc e negli anni a venire.

 

 

Peggiore ancora è la seduzione-inganno che tocca al nobiluomo raffigurato dal Caravaggio. Il braccio sinistro poggiato sul fianco (esattamente come il giovane innamorato dipinto da Goya), porge la mano destra a una zingara, che lo fissa intensamente, ricambiata. E non s’accorge che lei, mentre con due dita gli tiene aperta la mano per leggergliela, con l’anulare gli sfila l’anello. Tanto può imbrogliare l’influsso (o influenza) della seduzione.

 

Spiegano i pannelli sistemati accanto ai due quadri nella Pinacoteca Capitolina (a cura di Federica Papi e Chiara Smeraldi) che “El Quitasol” è frutto di uno dei cartoni preparatori per il ciclo di arazzi commissionati a Goya nel 1774 per decorare la sala da pranzo del Palazzo del Pardo a Madrid, la residenza di caccia dei principi delle Asturie: il futuro re Carlo IV e sua moglie Maria Luisa di Parma. Il bozzetto del Parasole fu consegnato alla Real Fabrica di Santa Barbara il 12 agosto 1777 e il soggetto fu così descritto da Goya nella ricevuta di consegna: “Rappresenta una ragazza seduta su una riva, con un cagnolino e con un ragazzo al suo fianco che le fa ombra con un parasole”.

“Seppure destinato a modello per arazzo – spiegano le curatrici – il dipinto è già esempio della capacità creativa di un Goya trentunenne, pur influenzato dalle opere di Giambattista Tiepolo, allora impegnato a Madrid a decorare le sale del Palazzo Reale, e di Anton Raphael Mengs, mentre era direttore della Real Fabrica di Santa Barbara”.

 

 

Semplice il soggetto, ma assolutamente libera l’invenzione: non più temi di caccia o composizioni allegoriche come voleva la tradizionale arazzeria fiamminga, ma scene e figure ispirate al mondo reale e alla società contemporanea spagnola. La giovane donna protetta dall’ombrellino è infatti una maja, una donna del popolo, vestita con un elegante e sfarzoso abito di foggia francese, come era d’uso in Spagna nei giorni di festa. La donna, che regge in mano un ventaglio chiuso, oggetto di vezzo, si mostra in tutta la sua bellezza al giovane uomo, un majo raffigurato con il tipico abbigliamento madrileno, ma anche al pubblico verso il quale sta rivolgendo il suo civettuolo sguardo.

 

Il formato dell’opera, la prospettiva dal basso verso l’alto, la composizione piramidale e il taglio diagonale del muro, che chiude come una quinta la scena a sinistra, contribuiscono a concentrare lo sguardo sulle due figure in primo piano e a focalizzare l’attenzione sul gioco di seduzione messo in atto dalla ragazza. Tutto è studiato per amplificare l’energia amorosa che traspare dall’opera: i colori sgargianti dell’arancio della sottana e del corpetto azzurro della donna, il cagnolino accucciato sulle ginocchia, il sottile gioco di luci e riverberi che l’ombrellino crea sul volto della ragazza.

 

Luce e colori sono i protagonisti del dipinto e rivelano la conoscenza di Goya della pittura classica italiana, in particolare di quella rinascimentale veneziana, ma non solo. Se l’influenza di Tiepolo e dei maestri francesi appaiono evidenti nell’ariosità del dipinto, altrettanto manifesta è l’interpretazione profondamente realistica e naturalistica del soggetto. I rimandi all’arte rinascimentale e seicentesca sono però filtrati da un occhio moderno: con il “Parasole” (che da ventitré anni non è esposto in Italia) Goya sembra alludere alla “Vanitas”, ovvero alla transitorietà della bellezza e della giovinezza espresse dai due protagonisti. L’ombra sul volto di lei è inquietudine, se non l’affanno già romantico.

 

Caravaggio aveva ventisei anni quando dipinse la “Buona Ventura”, tra le sue prime opere certe. Datata 1597 (appartenne in primis al cardinale Francesco Maria del Monte, poi al porporato Carlo Emanuele Pio, infine fu ceduto dal principe Gilberto II alla Reverenda Camera Apostolica e di qui alla Galleria dei Quadri fondata sul Campidoglio nel 1748 da papa Benedetto XIV) è frutto dell’avvio del suo soggiorno romano. Ma subito diviene dirompente esempio di novità.

 

Il soggetto è un episodio di vita quotidiana cui sembra di poter assistere in un giorno qualunque inoltrandosi tra i vicoli e le piazze della Roma di fine Cinquecento. Partendo dal fondo della tela, Caravaggio costruisce uno spazio indefinito ma reso reale dalla luce naturale. Dalla quale emergono, come illuminati con riflettori posti sulla sinistra, una zingara e un giovane cavaliere, modelli viventi, vestiti con abiti contemporanei, tratti dall’osservazione del vero. Ma al di là del realismo si nasconde un avvertimento, frutto anche del clima della Controriforma: la giovane veggente mentre legge il futuro al cavaliere gli sfila dall’anulare destro, come detto, l’anello. Il monito è a non farsi ingannare dall’apparenza delle cose né a cedere alla seduzione dei falsi profeti.

 

 

 

 

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