Gian Piero Brunetta ha solo dieci anni meno di lei. Con la Mostra del Cinema ci va a bere lo spritz al Lido da quando era ragazzo e vederla compiere 90 anni gli ha fatto venire una voglia matta di darle quel regalo che stava impacchettando da una vita. “Glielo dovevo, prima o poi, perché l’attrazione fatale per il Festival ha dato un senso a tutto il mio cammino facendomi innamorare del cinema”.
Decano dei critici cinematografici, ha insegnato Storia del cinema all’Università di Padova per decenni e adesso si è cimentato in quella che definisce una "missione impossibile": mettere in fila in 1328 pagine, per l’editore Marsilio, e 333 pagine di illustrazioni, tutta la storia del Festival, un marasma colorato di “condottieri e capitani coraggiosi, di combattenti, esploratori e scopritori, traghettatori, negoziatori, funzionari rispettosi, grand commis de état, direttori pontefici, direttori ombra e di passaggio, giurie competenti, equilibrate, coraggiose, incompetenti, imprevedibili, distratte, conformiste, eterodirette e ammaestrate”. Ha seguito dal vivo una cinquantina di edizioni.
Professore, come si stava nell’agosto di 90 anni fa sulla terrazza dell’hotel Excelsior?
Si respirava un’aria di grande libertà, come da nessuna parte in Italia anche se si celebrava proprio nel 1932 il decennale del fascismo. Insieme al profumo della brezza del mare, si diffondevano i sentori di uno spirito laico e tollerante, un’aria festosa di libera circolazione di emozioni e idee. Si dimenticavano le prescrizioni autarchiche e la sensazione era di godere, grazie al cinema, di una cittadinanza internazionale. Il conte Volpi, Maraini e De Feo, i tre padri fondatori, fanno le cose in grande. In tempi molto brevi, riescono a portare alcuni film che lasceranno una traccia, tra cui alcuni provenienti dall’Unione Sovietica che godono di un successo di pubblico e critica non inferiori a quelli americani. La leggenda vuole che a Maraini fosse venuta in mente la possibilità di un festival del cinema dopo avere visto il trasporto del pubblico che guardava una partita di calcio. E la popolarità non è da meno: gli spettatori paganti sono 18mila nel corso di tre settimane. In caso di pioggia, con un proiettore mobile ci si spostava in una capanna sulla spiaggia. Nessuna giuria, solo il pubblico che compilava dei moduli sul gradimento. E una quantità di divi da far impallidire qualsiasi rassegna contemporanea: Greta Garbo, Clark Gable, Joan Crawford, Vittorio De Sica, per citarne solo alcuni.
C’è un’aspirazione, un 'sentimento' del Festival rimasto intatto da quella prima edizione?
Credo di poter dire che c’erano e ci sono sempre stati l’idea di difendere l’arte, anche dalle smanie dei produttori, e il rispetto della sacralità del luogo con una serie di rituali laici che non si sono mai persi, nemmeno negli anni più difficili. L’elemento identitario di Venezia rispetto ai festival di Cannes e agli altri che arrivano dopo è proprio la capacità di proteggere a oltranza l’arte, anche a discapito del dialogo del mercato. In questo aspetto più commerciale il Festival è stato meno bravo di altri ma, vista da un’altra prospettiva, è un'attitudine poi diventata un punto di forza perché ha preservato la qualità della rassegna.
Il direttore artistico Alberto Barbera ha spiegato che il tono dei film di quest’anno è cupo, come se i registi avvertissero i tempi tragici che stiamo vivendo. E ha svelato che un film russo, pur gradito dai selezionatori, non è stato accettato perché finanziato da Putin. Quanto conta il mondo ‘fuori’ sul Festival?
Tantissimo. Il Lido intercetta tutto: crisi, rivoluzioni, utopie. I peggiori anni sono stati i festival degli anni Settanta infarciti di slogan ideologici e nuove parole d’ordine culturali. Poco pubblico, mondanità e premi aboliti. Senza la concorrenza veneziana, Cannes diventa in quegli anni il punto di riferimento mondiale per ogni tipo di produzione grazie al favore del cinema americano e al mercato. Nel 1977 il direttore Carlo Ripa di Meana, socialista, organizza tutti gli eventi della Biennale attorno al tema del dissenso nei Paesi dell’Est e in Unione Sovietica. L’ambasciatore sovietico in Italia chiede al ministro degli Esteri Arnaldo Forlani di sospendere quella che viene ribattezzata la ‘Biennale del dissenso’. L’anno dopo viene rapito e ucciso Aldo Moro, si dimette il presidente della Repubblica Giovanni Leone, muore Paolo VI e ben poche voci si levano alla fine dell’estate a lamentare l’assenza della Mostra. Un altro caso significativo di influenze dal mondo 'fuori' è l'incidente diplomatico dell'assegnazione del 'Leone d'oro' nel 1966 alla 'Battaglia di Algeri', il film di Gillo Pontecorvo rifiutato da Cannes e che in Francia sarà proiettato solo nel 1971. La delegazione francese a Venezia diserta il Palazzo del Cinema in segno di protesta.
Nella sua opera definisce lo “scandalo” come “il sale della manifestazione”. Perché?
E’ nel suo dna, fin da subito. Nel 1934 l’apparizione del nudo integrale di Hedy Lamarr in ‘Extase’ di Machai segna il primo degli scandali e delle sfide lanciate alle forme di censura e della morale corrente. Gli spettatori erano sotto choc. Nel tempo ci saranno mobilitazioni e accuse di blasfemia contro ‘I Diavoli’ di Ken Russell o ‘L’ultima tentazione di Cristo’ di Martin Scorsese che il direttore artistico Biraghi volle mantenere a tutti i costi nel palinsesto del 1988 nonostante gli attacchi da ogni parte. Dai politici della Democrazia Cristiana con una telefonata di Andreotti, ai registi come Zeffirelli che disse di non voler mischiare il suo film con quel "pasticciaccio" e, tra le altre voci, venne registrata anche quella di Papa Giovanni Paolo Secondo. Alla fine, il procuratore della Repubblica, accompagnato addirittura da otto magistrati, stabilì che il 'fatto non sussisteva' e che il film poteva essere proiettato.
Nei 50 anni di Festival quali edizioni ha amato di più?
Sicuramente gli anni Sessanta, forse anche perché erano gli anni della mia scoperta del cinema. Anni di grande energia e fervore culturale in cui a Venezia si scopre il cinema della Nouvelle Vague. E al Lido arrivano registi americani come Stanley Kubrik, italiani come Pasolini, Bertolucci, i fratelli Taviani, Pontecorvo, Antonioni, Rosi, attori come John Ford. E la meraviglia è che li potevi incontrare al bar. Noi ragazzi facevano a gara a conoscere i grandi critici cinematografici, come Casiraghi, e capitava che alla fine di una conferenza stampa potessi confrontarti con Godard oppure che i protagonisti del Festival si mescolassero tra i dibattiti degli operai del petrolchimico di Chimica. Oggi è molto difficile avvicinare registi e attori. Allora era possibile anche riuscire a vedere tutti i film, cosa che ora è impossibile.
Il 1968 segnò però l'anno più incredibile del Festival con una contestazione che vide in piazza anche grandi registi...
Il 21 agosto, nel giorno in cui i giornali titolano sui bombardamenti americani in Vietnam, l'Anac, l'associazione nazionale degli autori, annuncia un'occupazione pacifica del Palazzo del Cinema promettendo che in quell'occasione l'assemblea dei cineasti avrebbe riscritto il regolamento trasformando la Mostra in una "democrazia reale". Il direttore Chiarini replica che il Palazzo era una sede privata e se la sarebbero dovuta vedere col codice penale. E così avviene: un gruppo di registi capitanati da Zavattini, Pontecorvo e Pasolini marcia verso il Palazzo al grido di 'Mostra libera!'. Alla sera all'esterno dell'edificio convergono un gruppo di fascisti armati di catene e di lidensi col fischietto chiedendo che la rassegna prosegua. Finisce con la polizia che alla sera fa irruzione per far uscire i presenti con alcune persone, tra cui Zavattini, che vengono sollevate di peso con le sedie e portate all'esterno. Il consiglio di ammnistrazione decide che però la mostra deve andare avanti e il 27 agosto, il giorno dopo le proteste, senza emettere alcun comunicato ufficiale da’ il via alle proiezioni.
Come sta il Festival al compimento dei 90 anni?
Io dico che sta molto bene a livello di qualità con alcuni direttori come Barbera e Muller che hanno restituito all’istituzione solidità istituzionale e amministrativa e, soprattutto, le hanno ridato la centralità artistica messa in discussione negli anni precedenti. Mi colpisce l’energia culturale e la forza che ancora la Biennale è in grado di sprigionare.
Ultima e inevitabile domanda. Il film del cuore dei suoi Festival?
Difficile… Forse anche per le modalità della visione dico ‘Deserto rosso’ di Antonioni che vinse nel 1964. Lasciai il posto all’Arena a una donna incinta di novi mesi e mi sedetti sui gradoni. E’ ancora intatta l’emozione di essere di fronte a un film che stava cambiando i modi della percezione e del racconto del cinema italiano.
10 settembre 2022
Rassegna poco frizzante in Laguna. Diciotto film in concorso, nessuna commedia. Spettatori attenti, nessun fischio ma neanche standing ovation
25 settembre 2024