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1 luglio 2023
di Marco Patricelli

Il peggio che possa accadere a un genio è di essere compreso

Ennio Flaiano
Ennio Flaiano
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I premi letterari, poetici, cinematografici, sono come una scarica elettrica che percorre lo Stivale su e giù, di qua e di là. A volte, un elettrochoc a corrente alternata, tra linearità e convulsioni. Cultura con abbondanti spruzzate di mondanità e il più delle volte mondanità spacciata per cultura, con i contenitori più importanti dei contenuti e i nomi preminenti sulle opere, seduzioni e collusioni. Premi, manifestazioni, festival e rassegne fanno della bella stagione la stagione del bello e non sempre dell’utile. Ennio Flaiano – al quale si deve tra le tante cose il neologismo “premiopoli” per designare la pioggia di riconoscimenti, statuette, attestati, targhe, diplomi e medaglie nella lunga estate italiana – probabilmente da lassù si arriccerà un baffo come in una celebre foto in bianco e nero nel vedere nella sua città natale, Pescara, la cinquantesima edizione dei Premi internazionali che portano il suo nome e lo veicolano per il mondo, prendendosi il lusso pure di anticipare due o tre Premi Nobel come fiore all’occhiello.

Quando lui se ne andò, il 20 novembre 1972, rischiava di essere ricordato solo come uno degli sceneggiatori dei capolavori di Federico Fellini. L’amico Edoardo Tiboni, intitolandogli un premio importante, volle evitare che una delle personalità più originali, intriganti, lucide e visionarie di un’irripetibile stagione della cultura italiana venisse confinata nel limbo dei minori. E da lì partì la Flaiano-Renaissance, la fiammella diventata fuoco alimentato da una popolarità sempre più diffusa. La parabola professionale di Flaiano, d’altronde, è segnata ai due estremi proprio dai premi che tanto irrideva e che così poco prendeva sul serio, nonostante ne avesse avuto bisogno. Nel 1947 il suo talento letterario venne rivelato nella prima edizione del Premio Strega, che si aggiudicò col romanzo “Tempo d’uccidere”.

La genesi fu contorta, in piena aderenza al microcosmo flaianeo. Era stato infatti Leo Longanesi, suo amico, a premere, spingere, forzare, costringere l’autore pescarese a scrivere qualcosa di più ampio respiro degli articoli di giornale, elzeviri e recensioni, generi in cui comunque eccelleva. Qualcosa di simile era accaduto negli Anni Venti a George Gershwin, celebrato autore di canzoni, che si vide obbligato a comporre in tre settimane “Rhapsody in Blue” perché Paul Witheman aveva annunciato sulla stampa “An Experiment in modern music” con la prima esecuzione di un brano di jazz sinfonico del compositore ebreo-russo-americano. Flaiano ripescò allora dalla memoria la sua esperienza di tenente di complemento nella guerra d’Etiopia.

Era partito volontario, convinto della narrazione fascista delle “magnifiche sorti e progressive” dell’Italia civilizzatrice, ne tornò disilluso e disincantato. Un altro tenente del Regio Esercito, Indro Montanelli, avrebbe a sua volta riportato in patria e nel suo convincimento il risveglio dal sogno ingannevole della propaganda. In “Tempo d’uccidere” c’era una storia, c’era una riflessione sui tempi, c’era un’introspezione che ne facevano un’opera destinata a essere un classico, continuamente ristampato, e al quale non ha reso giustizia sul grande schermo Nicolas Cage nel film di Giuliano Montaldo del 1989. Longanesi aveva visto giusto e aveva saputo indirizzare col suo mestiere un talento acerbo verso una prova di maturità realizzata in appena tre mesi.

Flaiano riuscì persino a non ubriacarsi del momento di gloria e della ribalta degli ambienti che contavano, lui provinciale non innamorato della propria città e sceso a Roma per la quale provava un sentimento misto di innamoramento e di respingimento. Pescara era un luogo dell’anima dove lui, nato il 5 marzo 1910 ultimo di sette figli e giunto “a tavola ormai sparecchiata”, aveva vissuto traumaticamente le lacerazioni tra il padre Cetteo e l’adorata madre Francesca che, per allontanarlo da quel clima, l’aveva mandato nelle Marche. A Roma era invece andato il 27 ottobre 1922, appena undicenne, su un treno che scandiva sulle rotaie il ritmo del momento storico della marcia mussoliniana senza Mussolini, di cui colse subito gli aspetti grotteschi e caciaroni e ne scrisse sapidamente nella sua sintesi quasi filosofica.

Ma nel secondo dopoguerra colse invece nella Capitale quei fermenti che si sarebbero espressi in un prepotente fiorire intellettuale, anche negli eccessi e nell’esaltazione di mediocrità celebrate come maîtres-à-penser con lo scudo e il coro ideologico dell’appartenenza militante. Lo spirito indipendente che scansava camarille e consorterie, che aveva preso le distanze dal fascismo nel periodo di massimo consenso e che diceva di se stesso “non sono comunista perché non me lo posso permettere”, era un esponente di spicco di una generazione di intellettuali che aveva il suo quartier generale al Caffè Greco: Orfeo Tamburi, Vincenzo Cardarelli, Leo Longanesi, Vitaliano Brancati, Carlo Levi. Lì Flaiano assaporava proustianamente il caffè con una liturgia che terminava col cucchiaino a vorticare sul bordo interno della tazzina; lì avvinceva con il suo estroso modo di fotografare personaggi e realtà, e crea un mondo partendo dal suo mondo; lì le idee aggrumavano e si espandevano; lì nascevano e prendevano forma arte e cultura.

Voglio aggiungere che bisogna essergli [a Federico Fellini] grati di averci dato, con La dolce vita, una lezione di fede e di coerenza artistica. La morale del film è in fondo questa. E potrebbe essere riassunta con due versi di Cardarelli: «La speranza è nell’opera Io sono un cinico che ha fede in quel che fa». 

Ennio Flaiano citato in Tullio Kezich, “Noi che abbiamo fatto la Dolce Vita”, Sellerio, Palermo, 2009. 

La stessa sera della vittoria del Premio Strega, che avrebbe dovuto lanciarlo in alto, dedicò un suo appunto a un gatto nero che gli attraversava la strada mentre tornava a casa, indifferente di incrociare uno scrittore in quel momento di successo, così come un paio di decenni dopo a Fregene scorgerà una lucertola attraversargli irrispettosamente il giardino “senza sapere che è mio”. Aggiungerà in seguito che dopo la vittoria allo Strega un critico, quasi per sfidarlo, scrisse che lo aspettava alla seconda prova, sottolineando quasi con compiacimento: “sta ancora aspettando”.

Una personalità così sfaccettata ha saputo dissipare il talento in rivoli, ognuno dei quali, comunque, di purissima linfa non sempre pienamente espressa in tutte le sue qualità, in un disordine creativo che non riuscì mai a dominare e neppure a riclassificare: segnava tutto su tutto, appunti sparsi persino sulle bustine dei fiammiferi. Forse addirittura era consapevole di poter essere accantonato dai posteri che ne avrebbero esaltato l’intelligente battutismo, avrebbero utilizzato in ogni circostanza suoi fulminanti aforismi (attribuendogliene anche altri), lo avrebbero citato di continuo ma senza troppo conoscerlo, sfiorandolo appena.

Il cinema italiano gli deve molto, moltissimo, come il giornalismo, mentre il teatro non seppe comprenderlo: “Un marziano a Roma” interpretato nel 1960 da Vittorio Gassman, sul quale aveva riposto ambizioni e speranze, fu un solenne e clamoroso fiasco, forse l’ultimo vero della scena italiana. Liquidò quella cocente delusione con l’aforisma “l’insuccesso mi ha dato alla testa”.

Eppure oggi la figura dell’alieno Kunt approdato con la sua navicella spaziale sulla terra, prima esaltato e conteso da inviti e ospitate per il fascino della novità, poi gettato via perché non più interessante e ormai fastidioso, è diventato un topos dei nostri tempi, anche se a teatro non è programmato quasi mai, e quel titolo è diventato un modo di dire. Prima di lui lo sceneggiatore quasi non compariva nei titoli delle pellicole, con lui e dopo di lui la scrittura per il cinema divenne arte. Premi e riconoscimenti, onori e passerelle, si riversarono però sul riminese Fellini, non sul pescarese che inventò “La dolce vita” e i neologismi universalmente conosciuti di paparazzo e vitellone.

Il primo, si dice, dal nome di un albergatore calabrese, tralasciando però che in abruzzese il paparazzo è la vongola, e questo certamente apparteneva alla matrice culturale di Flaiano, il provinciale aperto al mondo; e anche vitellone era l’italianizzazione di un termine dialettale che tradotto è però “budellone”, detto di persona indolente, pigra, nullafacente, un apparato digerente ambulante, appunto. Dopo l’infarto del 1970, Flaiano ricevette un nuovo Premio, a Campione d’Italia, in sua assenza considerate le condizioni di salute.

Fu Indro Montanelli, che era andato a trovarlo il 5 maggio in un residence al quartiere Prati, dove viveva dalla dimissione dall’ospedale e dove meditava di rimettere ordine alla sua vita, a preannunciarglielo. Il giornalista riporta un amaro passaggio proprio sul Premio Strega del 1947, raccogliendo una confidenza di Flaiano, che è descritto così: «È molto cambiato, anche fisicamente. È ingrassato, e ha un volto pallido, quasi cinerino. Ma ancora più mi ha impressionato la sua rinunzia al solito cinismo, dietro il quale si era sempre schermato. Mi ha letto la lettera che sta per mandare alla moglie con la richiesta della separazione: “Devo decidermi a liquidare questo passato coniugale, se voglio sopravvivere. Sono stati ventott’anni d’inferno”».

Eppure di Rosetta Rota, sorella del compositore Nino, dice: «È una donna meravigliosa: forse la migliore insegnante di matematica dell’università italiana, e una madre straordinaria, che ha sacrificato tutta la vita alla sua disgraziata creatura [la figlia Luisa, affetta da encefalite]. Ma per me e il mio lavoro non ha mai avuto che disprezzo. Credo che, di mio, non abbia mai letto nulla. Non mi fece nemmeno i rallegramenti quando vinsi lo Strega: mi chiese solo i soldi per pagare due mesi di pensione in montagna per sé e la bimba».

La sera del 9 maggio Montanelli la racconta così: «Un altro infarto deve averlo rischiato Flaiano che per telefono ci martellava di ordini e contrordini. Latitante (com’era da prevedere) la Mangano, voleva che l’assegno fosse ritirato da Pautasso. Poi ne ha dato incarico a Soldati. Poi, colto dal dubbio che Soldati se lo giocasse (la premiazione si svolgeva al casinò), voleva revocargli il mandato, ma senza offenderlo. Dopo serrato e convulso dibattito, abbiamo deciso che l’assegno sarebbe stato ritirato dalle mani di Soldati ma per passare immediatamente in quelle mie e che io mi sarei precipitato al telefono per dargliene conferma. Così ho fatto. “Dio sia lodato!” ha urlato nell’apparecchio. Pausa. Poi, in tono apprensivo: “Ma tu, giuochi?”». Il 20 novembre 1972 l’infarto, quello vero, si portava via Flaiano a 62 anni. Il peggio che possa accadere a un genio, è di essere compreso. Anche questa è sua. 

 

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