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14 febbraio 2023
di Marco Patricelli

Semel in anno licet insanire

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La festa a colori per eccellenza, quella in cui vale tutto e il contrario di tutto. Giovani e vecchi, belli e brutti, si lasciano alle spalle regole e vita reale per vivere la favola nella trasgressione. Carnevale nel XXI secolo è un po’ come il pranzo della domenica del secolo precedente, quando l’abbondanza inseguita per una settimana si manifestava con i riti della cucina che Eduardo De Filippo sublimò nella ricetta del ragù napoletano in “Sabato, domenica e lunedì”, ai tempi in cui la carne era roba da ricchi e i poveri la surrogavano con le pietanze che la ricordavano alla lontana.

La carne, per chi l’aveva, spariva effettivamente dalla tavola per precetto religioso il mercoledì delle Ceneri che scandiva l’avvio della Quaresima, e quindi il giorno prima si festeggiava il “carnem levare”, da cui si vuole prenda origine il Carnevale, come se non vi fosse davvero un domani.

L’unica certezza sulle origini di una festa esportata in tutto il mondo è il nome italiano, adattato più che tradotto nelle altre lingue. Esisteva già, senza altra implicazione che non fosse l’abbandono al divertimento, prima ancora che un insospettabile come Sant’Agostino scrivesse nero su bianco nel “De civitate dei” che almeno una volta l’anno era tollerabile impazzire. E se lo diceva lui, era da crederci, perché confortava il parere di due giganti del pensiero come Seneca e Orazio, e sdoganava i riti pagani dionisiaci greci e baccanali romani.

Un insospettabile come Sant’Agostino scrisse nero su bianco nel “De civitate dei” che almeno una volta l’anno era tollerabile impazzire

“Semel in anno licet insanire” nel Medio Evo è cosa fatta, e lo spirito di ribaltamento di luoghi comuni e luoghi sociali per un solo giorno, per quanto malvisto dalle autorità ecclesiastiche e dal sistema politico di allora, si impone su tutte le convenzioni e i freni religiosi, collettivi e politici. Si fa e si dice quello che non si può, con lo schermo che tanto nel giorno di Carnevale nulla può o deve essere preso sul serio. Ci si libera di un peso, il martedì, nella certezza che il mercoledì tutto sarà come prima: spariti i suoni, le musiche e gli eccessi, sparite le tavole imbandite.

La modernità ha ruminato la festa conservandone l’esteriorità, levigando le assolutezze e plasmandole alle esigenze del­l’homo tecnologicus, dal più piccolo al più grande

La modernità ha ruminato la festa conservandone l’esteriorità, levigando le assolutezze e plasmandole alle esigenze del­l’homo tecnologicus, dal più piccolo al più grande. Sparite dal radar le mamme che i vestiti dei bambini li cucivano in casa, spesso con tessuti di risulta, che avevano la preziosità del pezzo unico, adesso arrivano in plastica dalla Cina al supermercato al prezzo di due o tre rocchetti di filo e sono garantiti meno di un giorno, riproduzione dei personaggi dei cartoon e dei manga che vanno per la maggiore e da cui sono bombardati sui social e sui tablet, perché la tv è diventata roba da vecchi.

Altro che Zorro, Sandokan, Corsaro nero e D’Artagnan. Quanto a principi e principesse, dopo Carlo e Diana e Harry e Meghan, è difficile sognare in azzurro e rosa.

Il Martedì grasso i giovani non sanno neppure cosa sia né perché si chiami così, desueti persino all’idea del “semel in anno” e del costume, perché ogni momento dell’anno è buono per travestirsi e per infrangere le regole. È proprio la trasgressione celebrata nell’acme delle quattro stagioni a non appartenere più al Carnevale, perché era ma non è più metafora della vita, ormai diluita e scolorita senza neppure la necessità di giustificarla con i coriandoli. Il mondo alla rovescia ci va già con l’affermazione del virtuale e la rincorsa al metaverso, con la socializzazione incorporea dei telefonini, con la stanchezza annoiata di quel personaggio di Carlo Verdone che non trovava mai nulla di nuovo da trasgredire perché ormai avevano fatto di tutto.

Wolfgang Goethe, nel suo “Viaggio a Roma” alla fine del Settecento era rimasto estasiato dal Carnevale capitolino che era capace persino di scaldare il cuore algido di un tedesco, e ne aveva concluso che esso esprime proprio la vita, «che non si può abbracciar tutta d’un colpo d’occhio, né goderla tutta, piena di pericoli com’è, il mio augurio è che questa spensierata turba di maschere ci richiami tutti a riflettere sull’importanza di ogni godimento, per tenue e rapido che talvolta possa sembrare». Niente più sfogo codificato dal calendario per evadere dai codici morali, civili e religiosi, e neppure evasione dal luogo, dal tempo e dalla propria identità ben celata dalla maschera e dal travestimento.

Wolfgang Goethe, nel suo “Viaggio a Roma” alla fine del Settecento era rimasto estasiato dal Carnevale capitolino che era capace persino di scaldare il cuore algido di un tedesco

Una finzione consapevole, fintamente ingannatoria e dissonante rispetto a liturgie, tradizioni, significati reconditi, velocizzata dai tempi moderni, ipervitaminizzata dall’apparire per strabiliare, e annacquata nella fluidità di nuovi riti, nuove usanze e nuove palesi accezioni. All’energia sfrenata che parte dal basso per far finta che il potere di tutti i giorni non esista quasi nessuno attribuisce ormai quella forza di rinnovamento simbolico ed esteriore, di una piccola rumorosa rivoluzione che rientra immancabilmente nel suo alveo di quotidianità dopo la tracimazione festaiola.

Essere la più popolare di tutte le feste comandate nel segno del divertimento, consente di reggere alle sfide della contemporaneità, nella sua parcellizzazione geografica, come ramo allargatosi dal medesimo tronco e geloso della propria identità: Viareggio o Venezia non si sognerebbero neppure di essere scambiate per Rio de Janeiro. Forme diverse, uguale sostanza, nella miscela inseparabile tra raffinatezza e naïveté che una volta era tra ricco e povero e oggi è spezzettata trasversalmente in una società messa a dura prova dalla pandemia, dalla crisi economica, dal caro-bollette e dalla guerra in Ucraina. Il passaggio dalle mascherine chirurgiche e FFP2 alle maschere alla Diabolik, dunque, segna il nuovo corso di un mondo che cambia e si aggrappa al passato per trarre da esso le certezze che altrimenti non ha.

L’ansia di rinnovamento e di rinascita ha mutato forma perché il mondo ha trasformato gli stili di vita e l’ordine delle cose

L’ansia di rinnovamento e di rinascita ha mutato forma perché il mondo ha trasformato gli stili di vita e l’ordine delle cose. Il ragù di Eduardo è finito nei sughi pronti del supermercato, realizzati in serie e non con la passione poetica del piccolo capolavoro domestico da realizzare con tempo e fatica, accanto alle mono-porzioni destinate ai single e alle mono-famiglie. I coriandoli multicolore da far sfarfallare per dipingere la realtà si lanciano in aria dissipando abbondanza e benessere auspicati a Capodanno dalle lenticchie. Illusione per illusione, la vita come teatrino dove si può recitare se stessi o liberamente trasmigrare in un’identificazione sostitutiva di fantasia, almeno nel giorno in cui l’eccesso è non solo permesso ma anche offerto, come ha lasciato scritto Sigmund Freud. E freudianamente tanto vale insanire almeno una volta.

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