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23 settembre 2022
di Maria Rita Nocchi

Capogrossi coglie nel segno

 Superficie 553
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Dal disegno al “segno”. Proprio quel segno, inconfondibile ed enigmatico, che ha regalato a Giuseppe Capogrossi (1900-1972)  un posto tra i pittori più iconici del Novecento italiano. Disposto sulla tela in modo sinuoso, e solo apparentemente casuale, il  "segno" è il punto d'arrivo di un cammino artistico iniziato almeno venti anni prima. Un percorso non privo di tormenti. Tanto che lo storico e critico d'arte, Giulio Carlo Argan, uno dei personaggi a lui più vicini, racconta che, alla fine degli anni 40, più volte l’artista si rifugia da lui, profondamente turbato, agitato, perché capisce che il suo linguaggio sta mutando inesorabilmente ma non sa ancora bene quale strada è destinato a prendere . Lo capirà presto, e sarà un successo.  Nel 1950 la Galleria del Secolo di Roma  presenta la nuova produzione del pittore. Alla Biennale di Venezia del 1954 è già una star, e ottiene la prima strepitosa sala personale dedicata alla sua ricerca segnica. 

A 50 anni dalla morte, avvenuta a Roma il 9 ottobre 1972,  Capogrossi torna protagonista nella sua città con una grande mostra "Capogrossi. Dietro le quinte", allestita dal 21 settembre al 6 novembre presso la Galleria Nazionale di Arte Moderna dalla Fondazione Archivio Capogrossi, che ha voluto organizzare una rete di iniziative per restituire al pubblico la complessità e la coerenza dell'opera di una delle maggiori personalità del secolo scorso. L'esposizione riporta nella capitale l'opera dell'artista dopo oltre 20 anni, e avvia le iniziative del progetto "Capogrossi. Il segno nei musei e nelle istituzioni italiane". Spiega a Mag 1861 la curatrice della mostra, Francesca Romana Morelli:  "La Fondazione ha ideato questo progetto  che mette insieme tutte le istituzioni che possiedono opere di Capogrossi per capire quanto l'artista sia stato apprezzato, valorizzato e acquistato, per capire insomma la sua fortuna a 50 anni dalla morte". 

In esposizione una selezione di oltre 30 dipinti e una ventina di opere su carta: provengono dalle collezioni della Galleria Nazionale (che possiede il nucleo più cospicuo di lavori dell’artista), dalla Fondazione Archivio Capogrossi e da collezioni private. Molto ricca la parte archivistica, che unisce i documenti  del Fondo storico della Galleria Nazionale di Arte Moderna (comprendente la donazione di Olga Capogrossi, figlia del pittore) e dell'archivio della Fondazione. Ci sono i ritratti fotografici di Capogrossi con personaggi di spicco dell’epoca, cataloghi di mostre, riviste, lettere e articoli di giornale. Che uomo era Capogrossi? "Molto schivo, legato alla sua famiglia, agli amici, alla sua città - rivela Morelli - non mancava agli eventi ufficiali e artistici ma non li cercava. Amava la natura piuttosto che la città". 

Nei saloni della Galleria le opere figurative sono esposte accanto alle segniche, entrambe di forte impatto suggestivo, per invitare il visitatore a riflettere sull'accostamento e a coglierne il nesso. Sta in questa scelta la novità della mostra. “Capogrossi estrae il segno dalle figure e dalla realtà che lo circonda – fa osservare  la storica dell'arte e curatrice  – perciò i dipinti tonali e quelli segnici scelti per l'esposizione funzionano come le tessere di un puzzle che, una volta incastrate tra loro, senza seguire un rigoroso ordine cronologico, ma piuttosto la concezione formale, l’uso dello spazio e del colore, rendono visibile la vera fisionomia di Capogrossi”.

Non un artista sdoppiato, quindi, ma coerente e centrato rispetto alla sua ricerca. Lui stesso scrive: “Fin dal principio ho cercato di non contentarmi dell’apparenza della natura. Ho sempre pensato che lo spazio è una realtà interna alla nostra coscienza e mi sono proposto di definirlo. Al principio ho usato immagini naturali, paragoni o affinità derivata dal mondo visibile, poi ho cercato di esprimere direttamente il senso dello spazio che era dentro di me”.

In mostra, tra le altre, ci sono opere quasi inaccessibili da diversi anni, quindi particolarmente apprezzabili. Ad esempio il “Nudo disteso”, una bellissima figura di donna, dipinta nel 1940 nello studio di Anticoli Corrado, luogo prediletto da  Capogrossi nei suoi anni giovanili. Per eseguirlo il pittore utilizzò una modella locale, Antonietta. Il quadro, che secondo i critici contiene in nuce gli sviluppi stilistici successivi della pittura capogrossiana, è stato esposto l'ultima volta a Spoleto nel 1986, in occasione del ventinovesimo Festival dei Due Mondi. Da non perdere  “Superficie 274”, del 1958, proveniente da una collezione privata: l'ultima volta che il pubblico lo ha potuto ammirare è stato nel 1964, in occasione della personale a due con Lucio Fontana nella Gutai Pinacotheca a Osaka. 

Molti capolavori di Capogrossi hanno lo stesso titolo: Superficie, seguito da un numero. L'idea fu di Argan, che la suggerì al pittore.  “Superficie 68 ha una storia singolare – racconta Morelli – il quadro fu acquistato nel 1954 per 200.000 lire da un giovane  imprenditore milanese, Gianfranco Moglia, e ancora oggi è di proprietà della sua famiglia. E’ raro che un’opera importante resti nelle stesse mani per così lungo tempo ”.  Le opere dell'artista romano hanno arredato palazzi importanti: c'è una foto che ritrae la regina Elisabetta II, in tailleur e cappellino bianco, e Angela Merkel a colloquio nella Cancelleria di Stato. Alle loro spalle la Superficie 328 di Capogrossi. 

In esposizione alla Galleria non solo quadri. C'è un grande arazzo, ideato dal pittore sviluppando il motivo compositivo della Superficie 33, e tessuto in lana dalla famosa Arazzeria Scassa di Asti per essere destinato al transatlantico Michelangelo;  ci sono i piatti di Albisola, famoso centro della ceramica fin dall'epoca futurista: qui, durante i lunghi soggiorni estivi, Capogrossi incontrava Lucio Fontana e gli altri artisti legati al mondo dell'informale. Ci sono infine due preziosi esemplari dei favolosi gioielli da lui disegnati e realizzati dal maestro orafo gioielliere  Massimo Fumanti. 

I documenti raccontano la vita dell'artista, segnata dalla prematura scomparsa del padre, nel 1907.  La volontà di dedicarsi all'arte, maturata al suo rientro a Roma, dopo aver preso parte del primo conflitto mondiale, è contrastata dalla madre, che lo esorta a ad iscriversi alla facoltà di Giurisprudenza. Lui obbedisce: in una bacheca è esposto il diploma di laurea. Ma quando la madre gli procura un impiego al ministero delle Pensioni di guerra, ribadisce, con fermezza, in una lettera che non è quella la sua strada. Comincia così il percorso che lo porterà a contatto con gli artisti più importanti del panorama romano tra le due guerre. Gli anni 40, sconvolti dalla guerra, segnano per lui  un periodo di profonde difficoltà economiche, ma poi c'è la svolta. In mostra c’è la lettera che Carlo Giulio Argan gli scrisse nel 1954 per complimentarsi  in occasione della sua esposizione alla Biennale di Venezia: "Sei  uno dei pochi che si preoccupano assai più della forma che del quadro. E si rendono contro che, per salvare la prima, può essere necessario e mette comunque conto di sacrificare il secondo. Perciò io penso che la tua posizione, anche se qualcuno possa giudicarla appartata e astrattamente contemplativa, sia generosa e umana". C’è, infine, una cartolina di Palma Bucarelli,  storica direttrice e sovrintendente dal 1942 al 1975 della Galleria: "Al primo che ha colto nel segno".

 

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