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7 giugno 2022
di Lucia Licciardi

L'eruzione del colore

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Una esplosione. Arancio, verde, giallo, rosso, blu d’oltremare. Tutto molto lontano da quel bianco e nero che i più immaginano quando si parla di antico. Il mondo classico, e soprattutto quello romano, era a colori. E che colori. Brillanti, ottenuti persino da pietre preziose come il lapislazzuli, sbriciolato per la pittura e ridotto a tessere fini per il mosaico. Già, il mosaico. Un alto artigianato declinato per ‘opus tessellatum', quello dalle tessere più o meno rettangolari, creando decori non solo geometrici, e opus vermiculatum, con tessere piccolissime, 3 millimetri di lato al massimo, e non sempre di forma regolare perché una volta applicate riproducessero un effetto che oggi chiamiamo pennellata.

Marmo, vetro, argilla…ogni materiale porta il suo contributo alla creazione di un ambiente variopinto che infonda luce e senso di agiatezza. Nelle ville di Pompei, nelle dimore dell’ozio imperiali di Baia, nelle domus patrizie di Ercolano e Stabiae, mosaici e pitture parietali ‘sfondano’ i muri delle stanze e le proiettano verso i giardini e il mare, per rendere ancora più confortevole l’abitare. E più che visitando gli scavi della città romana, è proprio una passeggiata all’interno del museo archeologico di Napoli a restituire l’incanto di quel caleidoscopio in cui erano immersi ricchi commercianti e nobili. I mosaici delimitavano soglie, decoravano pavimenti, riproponevano con i loro emblemata dalle mille tessere infinitesimali il lusso in cui vivevano gli abitanti della domus.

 

“La tecnica era la stessa tuttora usata. Scelto il disegno, riprodotto su cartoni, spesso tra soggetti convenzionali ma anche fatto su commissione, veniva preparata la base ben livellata con vari strati di malta fino all’ultimo, finissimo, dove venivano posizionate e fissate le tessere componendo l’immagine, fosse essa lo schema geometrico del meandro piuttosto che quello dei mille cubi, ma anche le torri, i rami intrecciati, i pavoni di un tenero azzurro o le colombe che si abbeverano”, mi spiega Caterina Serena Martucci, l’archeologa che mi accompagna in questo percorso. I romani non di rado hanno anche usato la cera per fissare le tessere, una tecnica che ha portato sino a noi i capolavori di Piazza Armerina. Iniziamo così a camminare attraverso le sale denominate Magna Grecia, custodi di gioielli, anfore, vasi, coppe e statuette. Una vertigine, calpestare, seppure con i piedi coperti dei calzari monouso, pavimenti preziosi e sì, colorati, coloratissimi.  Dalla villa dei Papiri, sontuosa dimora ercolanense dei Pisoni, arrivano a Carlo III di Borbone che li fissa in quelle stanze chiuse al pubblico per decenni, i ‘tappeti’ circolari di triangoli isosceli di marmo bianco, bianco, nero, giallo e rosso o il motivo a meandro giallo e rosso bordato di nero; mentre le ville di Stabiae offrono ancora il grande ‘arazzo’ a mattonelle quadrate con i segni zodiacali, bordato di festoni rossi con delfini e ancore. Le stanze, una dentro l’altra, tolgono il fiato e l’occhio non sa se farsi abbagliare dal disegno sotto i nostri piedi o dal bagliore dell’oro dei monili e della terracotta colorata dei reperti.

“La scoperta del colore del mondo antico è stata un messaggio dirompente che ci ha consentito di uscire dal grande inganno del candore delle statue per entrare nella reale percezione del mondo da parte dei nostri antenati”, mi dice sorridendo Paolo Giulierini, direttore del Mann. Marmi e pietre dure come lapislazzuli e turchese sono la testimonianza della ricchezza dell’impero e la capillarità dei suoi rapporti con il mondo conosciuto. Se di provenienza italica sono le tessere di marmo bianco, man mano che Roma si espande arrivano dell’Africa o dall’Asia minore quelli rossi, gialli e neri, cui si aggiungono la brillantezza del verde antico, del blu e dell’azzurro ottenuti dalle pietre dure. E al centro della decorazione arrivano raffigurazioni di uomini e animali, miti ed eroi, fontane e teste di gorgone, ma anche l’incredibile inventario di pesci ricostruito nell’impluvium della casa dei Mosaici a Pompei, una lavorazione a vermiculatum del I a.C. (l’età d’oro di questa tecnica oggi improponibile perché richiede tempi molto lunghi e di difficile programmazione, mi ricorda Martucci) per un’opera destinata ad essere vista attraverso il velo dell’acqua piovana che si raccoglieva nella vasca al centro dell’atrio di casa, in parte scoperto. Le maestranze locali poggiavano il tessellato, ma gli emblemata difficili erano affidati a artigiani esperti, all’inizio greci, che spesso lavoravano in bottega componendo il disegno in cassette di legno per poi fissarlo nel pavimento. E' da questa sapienza che arrivano i due galli affrontati o il leopardo, ma anche il gigantesco leone con amorini, Dioniso e Menadi del I secolo a.C. dal pavimento del triclinio della casa del Centauro. Per comprendere del tutto questa eruzione del colore, bisogna ricorrere a un vero ‘falso’. Una delle stanze del Mann, infatti, ospita una ricostruzione di ambiente ottocentesca di scuola tedesca che mette insieme pezzi da diverse domus pompeiane. Anzitutto le 4 colonne dalla casa omonima, decorate alla base di conchiglia e nel corpo intero da brillanti tessere di pasta vitrea blu oltremare con un disegno floreale e geometrico. Alle pareti a ‘quadretti’ ed edicole da ambienti dell’insula occidentalis, della casa dello Scheletro e dalla villa di Arianna ad Oplontis. Un trionfo di blu intenso, giallo tuorlo d’uovo, rosso aranciato, verde e mille altri colori. “I materiali – mi spiega ancora l’archeologa – spesso erano frammenti di quelli utilizzati per fare altro, schegge e pezzi di scarto, in una sorta di economia circolare che permetteva di utilizzare quanto più possibile i marmi, le paste vitree, i residui di lavorazione delle pietre da incastonare nei gioielli”. Una magia che emerge anche nei racconti un po’ goffi di realtà che l’artigiano magari non ha mai vissuto, come nel caso del mosaico rettangolare proveniente da ambienti della Casa del Fauno, in una stanza precedente quello della battaglia di Isso, fatto nel 100 a.C. circa, un milione di tessere di marmi pregiati colorati per celebrare la vittoria Di Alessandro Magno sui Persiani; in questo rettangolare il soggetto è il Nilo, e mostra fauna e flora dell’esotico fiume, compreso un ippopotamo e un buffo coccodrillo il cui corpo non è proprio fedelmente riprodotto. Eppure il marmo ci ritrasmette fedele lo sciabordio delle acque e la ricchezza di colori di una realtà lontana, nel tempo e nei luoghi.       

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