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1 febbraio 2023
di Lidia Lombardi

Un Biancosarti con Giorgio Morandi

Luigi Lambertini (dx) con Orfeo Tamburi (sx) - Mostra a Roma (1974)
Luigi Lambertini (dx) con Orfeo Tamburi (sx) - Mostra a Roma (1974)
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Giorgio Morandi era assai riservato, scontroso, si poteva azzardare. Se però prendeva qualcuno a benvolere, accogliendolo in casa gli offriva un Biancosarti.  “Ma quell’aperitivo, cacciato in gola senza un boccone, bruciava le budella. Sicché io me ne andavo nel pollaio e mi prendevo un pezzo di pane secco, per tamponare il fuoco nello stomaco”. Lo racconta Luigi Lambertini, dall’alto del suo magistero di critico d’arte, organizzatore di mostre, giornalista Rai, romanziere. Ha appena passato i novant’anni, Lambertini,  e ha donato alla Biblioteca di Rovereto, la città del MART (Museo Arte Moderna e Contemporanea), 142 opere della sua collezione (oltre all’archivio personale), i lavori più pregiati che hanno costellato la sua villa, sulla collina di Sutri.

Giorgio Morandi era assai riservato, scontroso, si poteva azzardare. Se però prendeva qualcuno a benvolere, accogliendolo in casa gli offriva un Biancosarti.

Turcato, Burri, Magnelli, Fontana, Depero, Joe Tilson tra le firme. Che sono ciascuna una tappa della vita, non solo professionale, di Lambertini ossessionato dalla voglia di conoscenza, di confronto con gli intellettuali ma anche con chi fa le cose, dal fabbro al falegname, al fabbricatore di pipe, al ciabattino.

C’è anche un disegno di Morandi nel lascito alla città trentina (dove Lambertini ha trascorso il primo periodo da giornalista Rai). “Io frequentavo l’università – Giurisprudenza, me lo aveva imposto mio padre ­- e collaboravo alla rivista Il segnacolo – scrivere la mia vera passione – diretta da Rolando Renzoni, caporedattore dell’emittente di Stato, che ad ogni numero dedicava la copertina a un artista. Dunque, Renzoni mi chiede di andare da Morandi. Mi faccio coraggio, affronto via Fondazza, a ridosso delle mura di Bologna, dove lui viveva con due sorelle e una cameriera. Una casa semplice, come di campagna, a due piani. L’atelier era la stanza in cui dormiva, a dire della simbiosi tra se stesso e la sua opera: una brandina, un tavolo e un étagère colmo di bottiglie, il soggetto preferito”. Del resto quel suo solitario ispirarsi agli oggetti sottomano, nella polvere della casa, era stato sottolineato forse per primo da Attilio Bertolucci in un articolo sul “Gatto selvatico”, la rivista dell’Eni che il poeta diresse dal 1955 al 1963, come ha ricordato recentemente l’italianista Gabriella Palli Baroni.

Niente interviste, niente virgolettati, esigeva Morandi

“Una chiacchierata – spiega Lambertini - un Biancosarti, il trasporto con cui parlava della natura dell’Appennino, della pioggia autunnale che toglieva via la polvere sui biancospini accumulata durante l’arida estate sulla strada per Grizzana, dove trascorreva i mesi caldi. Così mi limitai a un pezzo di colore. Gli piacque, mi regalò un suo disegno, che andò sulla copertina de Il segnacolo e ora è nella collezione di Rovereto”. 

La visita al Maestro si replicò un’altra ventina di volte. “Informatissimo di tutto, ti lasciava parlare e ti correggeva al minimo sbaglio. Scrissi di lui che era il pittore del silenzio, e apprezzò. Il silenzio del tempo, ripetei alla sua morte, nel coccodrillo. Ormai sicuro che avrebbe approvato”.

Anche Emilio Greco non venne intervistato da Lambertini, ma gli incontri furono molteplici

“Il primo a casa sua, a Roma, con mia moglie Maria Pia, in via Cortina d’Ampezzo. Volevo chiedergli una medaglia per l’anniversario dell’Associazione Mutilati e Invalidi Civili, della quale era presidente Alvido Lambrilli, mio amico. Lo trovai gentile, ma amareggiato per le critiche alla sua porta del Duomo di Orvieto ricevute dalla sinistra, Argan in testa, che parteggiava per Manzù. Quanto alla medaglia, niente da fare, l’artrosi – erano gli anni Ottanta – non gli permetteva di lavorare. Poi gli venne in mente di averne una non finita, dedicata all’Associazione dei Ciechi. Le figure avevano gli occhi chiusi. Azzardai: ci vuole poco, aprigli gli occhi. E lui lo fece. Mi fece dono di una acquaforte, un nudo di donna. Anche questa la troverete a Rovereto”.

A Lucio Fontana è legato un rimpianto.

“L’ho conosciuto a Parigi, era il ’67 o il ’68, in una di quelle terraces per vip, dalle parti di Saint-Germain-des-Prés. Era con Campigli e Gualtieri di San Lazzaro, il fuoriuscito durante il Fascismo che aveva fondato la prestigiosa rivista d’arte XXe Siècle. Mi avvicino, mi presento, esclamo umile: vi conosco dalle foto, che bello vedervi dal vivo. Campigli si manteneva serioso, Gualtieri aveva un’aria dimessa, da barbiere…Fontana un tratto dolce, sensibile, disponibile. Ci incamminammo insieme verso la stazione, lui partiva per Milano, io per Trento.

Lo accompagnai al suo vagone e mentre il treno cominciava a muoversi tirò giù il finestrino mi disse: devi venirmi a trovare, ci tengo, non tradirmi…Ci misi dei mesi a decidermi e nel frattempo Fontana morì. La stampina regalata a Rovereto è una delle poche opere che non ho ricevuto in dono. L’ho comprata, volentieri, per ricordo di lui, come per dirgli: non ti ho dimenticato”, e la voce di Lambertini  si incrina nella commozione.

Con Burri, a Città di Castello, parlava della sua storia politica, lui catturato nel ’43 in Africa dagli Inglesi, tenuto prigioniero come non cooperatore nel campo di concentramento di Hereford, in Texas, catalogato tra i “fascisti irriducibili” per aver rifiutato dopo diciotto mesi di prigionia, nel ’44, di firmare una dichiarazione di collaborazione

“I suoi sacchi sono quelli degli americani per il Piano Marshall. E nei tagli, nelle bruciature con i quali li tormenta c’è anche l’orgoglio del vinto nei confronti del vincitore”, spiega Lambertini. Che poi rivela un siparietto. “Negli anni Ottanta, parlando dell’allestimento della sua Fondazione negli Essiccatoi Tabacchi della città umbra, la lodai anche per l’aspetto scenografico. Poi lo incontrai a Roma, intorno a via della Scrofa, dove aveva l’atelier. Mi puntò addosso il dito sillabando: Guarda che io non sono uno scenografo. Gli rispondo: La prossima volta ti prometto che scriverò: Alberto Burri, artista internazionale, non scenografo. Lui girò i tacchi, senza una parola”.

E se con Riccardo Licata, l’incisore della Biennale, lo ha accomunato un’agnizione curiosa narrata in “Un aquilone, perché?” (era il bambino che negli inverni in montagna, a Clavière, il piccolo Luigi invidiava senza conoscerlo poiché lo vedeva da lontano muovere al vento l’aquilone), con Orfeo Tamburi cadde in una clamorosa gaffe

“Abitava a Parigi in un bell’appartamento. Nel salone campeggiava un grande quadro raffigurante una spiaggia e una conchiglia. Accidenti, che bel De Pisis che hai, lo apostrofai. E lui, un po’ acido: guarda che questo l’ho fatto io…E avrei dovuto immaginarlo perché De Pisis un’opera enorme non l’avrebbe mai dipinta”.

Infine, Victor Pasmore, tra i maggiori artisti astratti inglesi

“Viveva a Malta, lo conobbi a Roma, alla Stamperia 2RC, che aveva sede di fronte al Campidoglio. Mi chiese il saggio critico del suo catalogo generale perché aveva apprezzato la definizione che avevo dato della sua arte (va oltre la metafora, scrissi). Il giorno che dovevo consegnare il testo cercai parcheggio in via Caetani, e mi innervosii perché non riuscii a entrare nello spazio tra una Renault rossa e un’altra automobile. Trovai posto sul lato opposto. Mezz’ora dopo rinvennero il cadavere di Moro”.

Anche qui vibra l’emozione. Poi, il monito: “La mia passione è parlare con chi sa, per questo conversavo con gli artisti più che intervistarli. La donazione a Rovereto è nata dalla gratitudine per loro, tutti quelli che si sono ricordati di me. Per tenerne vivo l’operato, per creare cultura: l’arma che combatte l’arroganza e la violenza”.

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