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24 novembre 2025
by Lidia Lombardi

Le rovine che non si sgretolano. L'arte di Luigi Spina

Lago D'Averno 02 ©luigispina
Lago D'Averno 02 ©luigispina
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Luigi Spina adotta il confronto silenzioso e solitario per costruire le proprie fotografie, abituate a fissare rovine antiche e paesaggi trasfigurati: deserti, mentre invece i media ce li trasmettono frequentati massicciamente, “rovinati” dalla mano dell’uomo quanto più dovrebbero essere incontaminati.

 

 

Da questi scatti ricava libri a futura memoria di siti archeologici e naturali. E una scelta significativa viene esposta. Libri a futura memoria perché Spina – nato a Santa Maria Capua Vetere, nel 2022 insignito da Artribune miglior fotografo dell’anno - sa che l’oggetto delle sue immagini è a rischio mutazione, se non estinzione. Infatti suo recente impegno sono stati gli Scavi di Pompei, sempre soggetti ad ampliamenti, nuove scoperte ma anche a crolli, sotto la mole del vulcano. Ed ecco ora i suoi lavori sui Campi Flegrei, scombussolati quotidianamente dal bradisismo, sinonimo di precarietà, di habitat mai uguale a se stesso, che fa riversare ormai abitualmente chi vive qui, sull’orlo di altri vulcani mai silenti, a cominciare dalla Solfatara, che nel 2017 si è tirata giù, nella voragine asfissiante delle fumarole, un’intera famiglia di visitatori.

 

 

Dicevamo del metodo “monacale” di Spina. A Pompei, la città cancellata dall’eruzione del Vesuvio del 79 dopo Cristo, uno dei siti archeologici più visitati al mondo, ha lavorato durante il periodo del Covid. Ossia quando il parco archeologico è stato chiuso per il lockdown e dunque il fotografo – con l’illuminato consenso di Massimo Osanna, allora direttore generale a Pompei - lo ha percorso in tutte le ore del giorno, fissando cortili, domus, affreschi, resti di templi, teatro nelle meno sperimentate condizioni di luce. Ne sono scaturiti una mostra che ha fatto tappa un anno fa a Roma, Castel Sant’Angelo, e un libro per i tipi di 5 Continent Edition.

 

 

Analoga l’operazione celebrata da un’esposizione appena inaugurata presso il Castello Aragonese di Baia, sede del Museo Archeologico dei Campi Flegrei, un gigante di architettura militare eretto alla fine del Quattrocento a ridosso della costa protesa verso Procida, Ischia, il Golfo di Pozzuoli, sullo sfondo il profilo di Capri e della riviera che conduce a Sorrento. In questo luogo dell’anima da poco restaurato, a metà tra l’aura dei miti – in fondo al mare furono rinvenuti nel 1924 centinaia di reperti, statue, capitelli, resti di edifici, tubazioni per l’acqua che hanno permesso di datare i ritrovamenti all’età dei Severi, III secolo dopo Cristo – in questo posto stratificato d’epoche dunque, compresi i segni del consumo intensivo del territorio nel XXI secolo e anche oggi,  Luigi Spina ha vagato a partire dal 2020, fissando nella sua macchina fotografica soggetti colti nelle prime ore del mattino o al tramonto. Un saliscendi sulle colline, da Baia – città di villeggiatura per gli antichi romani – a Cuma, prima colonia greca del Mediterraneo, misterico insediamento della Sibilla, capace di impaurire con i suoi oracoli, per non parlare del lago dell’Averno, anticamera per la discesa agli Inferi.

 

 

Le foto di questa rassegna significativamente intitolata “Campi Flegrei, la terra ardente” (fino al 31 gennaio 2026) sono venticinque, mentre tutto il resto dell’impegno di Spina si è riversato nel volume pubblicato da 5 Continents Edition. Divise tematicamente in due sale, una sulla spianata del Castello Aragonese, l’altra da conquistare salendo fino alla Torre del Cavaliere. Nell’ambiente di sotto sono esposti gli scatti di rovine spesso mastodontiche, inquadrate tuttavia in modo inusitato. Il Teatro di Miseno, per esempio: ne vediamo un camminamento stretto, due figure si stagliano sul fondo, dove l’apertura ad arco le conduce dalla penombra alla luce, dopo aver attraversato una  copertura a botte che mostra a perfezione il materiale rugoso, restituendo a chi guarda la sensazione tattile di scorticamento. E’ appunto la cattura della fisicità del marmo, dei materiali costruttivi che caratterizza le foto di Spina. I licheni della Dragonara viene voglia di strusciarli con le dita della mano, al pari del travertino delle colonne adagiate a terra nell’Anfiteatro Flavio a Pozzuoli, dove il gioco di luce e ombra è un rimpiattino soprannaturale; mentre un cielo a pecorelle è incorniciato dalle mura rossicce del tempio di Venere, che ha perso la copertura ma conserva i fornici ad arco ribassato. La sezione nella Torre del Cavaliere squarcia il paesaggio. E qui si evidenzia l’innovazione di Spina, che non nasconde gli sgarbi fatti dai contemporanei, le ferite inferte in nome del progresso, della modernizzazione, dello sfruttamento territoriale. “La veduta del Golfo di Pozzuoli” è limitata nella fascia bassa, in primo piano, da resti di un insediamento industriale. Il Lago d’Averno è nascosto da un muro scrostato, lo sbocco al mare di un’antica conduttura è abbrutito da disegnacci fatti con la vernice.

 

 

“Foto di questo tipo non sarebbero state accettate anni fa – dice Spina - perché soltanto il bello doveva essere raffigurato. Ora invece vengono addirittura acquisite dal Parco Archeologico dei Campi Flegrei, è anche un riconoscimento allo strumento costituito dalla fotografia, come espressione artistica e realtà documentaria”. E infatti “le rovine archeologiche lungo da via da Bacoli verso Pozzuoli si inframmezzano con infrastrutture che in alcuni casi hanno avuto brevi esistenze. E’ un litorale marino contaminato da questo hardware tecnologico ormai spento. E’ una nuova mappa del territorio che bisogna imparare a conoscere per capirla e fotografarla”.

Nessuna concessione all’oleografia anche nella scelta di cogliere il paesaggio mai in sole pieno, ma nella luce naturale, priva di qualsiasi filtro, sempre screziata di plumbei nembi. Lo ha fatto anche il regista Gianfranco Rosi in “Sotto le nuvole”, il suo film premiato al Festival di Venezia, che coglie frammenti di esistenza di quanti vivono (e faticano a vivere) all’ombra dello “sterminator Vesevo” per dirla con Leopardi.

 

 

“L’antico nei Campi Flegrei è contemporaneo per destino – afferma Fabio Pagano, direttore del Parco Archeologico dei Campi Flegrei – perché in questo luogo, sempre vissuto, le rovine sono gli accenti che scandiscono il ritmo delle vita delle persone. Se il paesaggio dei Campi Flegrei fosse musica sarebbe sicuramente jazz. Una straordinaria sequenza di armoniche dissonanze, sincopate, con andamento marcatamente swing. La strada da percorrere è quella della ricerca di senso di una terra dalla quale è facile rimanere impressionati. Nella sua indagine Luigi Spina fa questo senza limitare l’inquadratura per evitare il segno di quella nota (apparentemente) stonata. Così la sequenza di foto può diventare una traccia per interpretare una terra”.
 

 

 

 

 

 

 

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