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1 marzo 2023
di Mario Sechi

Nell’amorosa quiete delle tue braccia

Villa Torlonia 
Villa Torlonia 
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Questa è la storia di un amore. Una “cosa” inspiegabile, un mistero servito da tutti gli Arcani maggiori, un gioco di fede e pazzia. È una passione antica, remota, sfuggente alla razionalità, all’ordine, al metodo, al catalogo, un turbinoso fiume in piena. Tutto ebbe inizio 35 anni fa, quando ero forte, veloce, affamato e avevo tutto quello che si chiama giovinezza. Non possedevo niente, la penna mi scappava di mano, scarabocchiavo sul taccuino cose che non erano né cronaca né romanzo, smarrito nello Sturm und Drang di un frutto acerbo.

Villa Torlonia era perfetta per non essere niente, era il mio giardino delle delizie, non conoscevo ancora bene la potenza visionaria di Hieronymus Bosch, non avevo ancora scoperto la grammatica degli spazi verdi, non mi ero ancora avventurato nei giardini di Kensington dove avrei scoperto la Londra di Shakespeare in un inatteso incontro con la natura che è uno scatto che mi resterà sempre nella memoria, qui. Rincorro il tempo perduto, la mia Madeleine proustiana, “The Good Life” cantata da Tony Bennett m’accompagna alla primavera che anche domani mi rapirà all’improvviso, come una viola del pensiero sulla neve, con il respiro che tramonta.

La primavera ti coglie impreparato, ti scaglia verso il “mese più crudele”, l’Aprile di T.S. Eliot, che

[...] genera

Lillà da terra morta, confondendo

Memoria e desiderio, risvegliando

Le radici sopite con la pioggia di primavera

 La poesia ti uncina come il Capitano Achab e ti porta in fondo al mare, mentre stringi Moby Dick, addormentato “nell’amorosa quiete delle tue braccia”.

La primavera s’affaccia nel gelo, non bussa alla porta, s’infila come uno spiffero, ti sfiora, è un raggio che fende i fiori, li accarezza come uno swing. La memoria, un colpo di vento. C’è un luogo dove i petali non sono disposti come soldati con la baionetta, c’è un posto, quel posto, dove i tulipani non sfoggiano l’armatura colorata, c’è un dove che non mostra i fiori d’ordinanza. C’è Villa Torlonia che sboccia tra pietra, polvere, prato, fango, acqua. Perfino l’aridità qui non è un fatto di stagione, ma di portamento. Sono fiori che non chiedono niente, perché niente a loro è stato dato.

Villa Torlonia è la storia di una moltitudine, una gemma, la più recente tra le residenze nobiliari di Roma, le sue simmetrie, il suo paesaggio, sono una calamita, il ponte verso un altro tempo, remoto e sospeso. È il parco più inglese della Capitale, Villa Torlonia, e per questo è anche quello dove planano l’avvoltoio del declino e l’aquila della grandezza, Roma. Dopo la presa di Roma nel 1870 fu accampamento militare, luogo di tende e cavalli; nel Ventennio fu la casa di Benito Mussolini, qui si sposarono Edda Mussolini e Galeazzo Ciano; con la caduta del regime fascista, dal 1944 al 1947 fu occupata dal comando anglo-americano; quando il Comune la prese in consegna nel 1978 era un residuato bellico.

Ieri, oggi, domani. Villa Torlonia è ascesi e caduta, terra e aria, cabrata e picchiata. Gli alberi svettano come zampilli di fontana barocca, si proiettano come braccia elastiche fino a toccare il cielo, chiedono, implorano, sono un desiderio mai domato. Le palme sono un balzo e un inchino offerto alla grazia dell’architettura, al disegno del paesaggio, ai monumenti, alle invenzioni di un pittore che falcia lo spazio con il pennello armato dalla volontà di non lasciare niente come prima.

Quei rami decollano, s’inerpicano, cercano di sfuggire al basso, al terrestre incolto, alla mano priva di intelligenza, al calendario dei nostri giorni, cercano l’eternità, il destino di Roma. Guardateli e poi chiudete gli occhi. Vedrete le chiome di Telperion e Laurelin, l’Albero d’Oro e l’Albero d’Argento, fonte di luce e di vita. Tolkien avrebbe incontrato gli elfi, qui a Villa Torlonia.

Villa Torlonia è figlia dell’eclettismo, un giardino romantico dove il neoclassico si sposa con lo schizzo eccentrico del momento, l’ordine e il guizzo sono l’atmosfera, la sorpresa. Sembra di vederli librarsi in aria, angeli di Chagall, gli architetti che come pagine di calendario passano, lasciano un segno, depositano sul terreno un’idea che germoglia come un fiore che non conosce l’appassire del tempo: Giuseppe Valadier, Giovan Battista Caretti, Quintiliano Raimondi, Giuseppe Jappelli, Enrico Gennari, Vincenzo Fasolo, tra i tanti che fecero l’opera, mettere e levare, un incessante abbellimento musicale.

Qui le geometrie e i canoni diventano sinfonia, il presto e l’adagio si fanno scherzo e ornamento. All’ingresso, il Casino Nobile, l’obelisco, le palme saettanti come frecce, sono un dardo intinto nel veleno dolce dell’amore, un acuminato, lancinante dolore che si fa assenza, mano nella mano che t’accompagna nel nessun-dove. È l’onda calma e possente di un andante che ha il profumo del maestoso, il sogno liquido, smorzato e cantilenante, un’ipnosi che oscilla tra i Vespri solenni di Mozart e l’Adagio in Sol Minore di Albinoni.

A Villa Torlonia non si cammina, si attraversa. È un bagnarsi in acque dove danzano fiori tropicali, qui l’Occidente ti bacia e ti lascia

A Villa Torlonia non si cammina, si attraversa. È un bagnarsi in acque dove danzano fiori tropicali, qui l’Occidente ti bacia e ti lascia, i pistilli s’inchinano mentre esalano mondi lontanissimi, l’Oriente è un cancello che si spalanca. Un universo sospeso dove il clangore della città non penetra. Lontane sono le sirene, il caos metallico, le urla scomposte, la tortura quotidiana del linguaggio, le sgrammaticature turistiche, la fatica dell’incomprensibile vai e vieni di una metropoli sempre sul punto di cadere eppur viva, splendente, ferita, in ginocchio e ostinatamente dentro la storia.

Villa Torlonia è il fantastico che sfavilla nell’iride, un mondo di fate e incantesimi, il trionfo dell’apparire, il primo bacio. La Casina delle Civette, un miracolo, con le sue radiazioni esoteriche, le vetrate disegnate dal genio della grafica, Duilio Cambellotti, un viaggio tra i tralci d’uva e le foglie di vite, un volo di rondini, il dominio delle civette. Vetrate a mosaico, coperture di lavagna, tegole di cotto smaltato, volumi che conducono a altre dimensioni, stucchi, legni, maioliche, stoffe, una navicella mitologica, esoterica, andiamo, mio capitano.

Villa Torlonia è uno scorrere di lancette senza il ticchettio del tempo, è incantesimo. Si sta sospesi, in attesa di un’altra sorpresa. Dalla Casina delle Civette si discende per il sentiero che s’apre verso il Campo da Tornei, puoi immaginare Ariosto che racconta “le donne, i cavalier, l’arme, gli amori”, mentre sulla sinistra compare il fiabesco remoto, la Serra Moresca, il racconto volta pagina verso terre arabe, deserti, oasi, l’Alhambra, un’armonia di chitarra andalusa, l’adagio del “Concierto de Aranjuez” che il suo compositore, Joaquín Rodrigo, battezzò con la formula “agile come una farfalla ed elegante come una veronica”.

Villa Torlonia qui s’apre in un deserto di rigoglioso immaginario, evocazioni d’avventura araba, è il terreno di Thomas Edward Lawrence, siamo sul dorso del cammello, sulla via di Aqaba. Miglio dopo miglio, la mente corre verso altre narrazioni dell’Islam, le mille e una notte della Serra Moresca, imprigionata e liberata, offesa e omaggiata, ieri dietro un cancello, oppressa da una rete, oggi splendida epifania profumata di spezie.

Villa Torlonia è uno scorrere di lancette senza il ticchettio del tempo, è incantesimo. Si sta sospesi, in attesa di un’altra sorpresa.

Sosto di fronte all’edicola mariana, mi volto, il terreno diventa una spianata di fili d’erba selvaggia dove torreggiano pini, cedri, lecci, palme. Percorro l’anello del parco, il brutto amministrativo cerca di sopraffare la bellezza, fermare la contemplazione, la circolare e la delibera, s’annidano nel lavoro sempre in corso, nel mai finito, è il sottovuoto spinto di una città dove il magnifico resiste ed esiste ancora grazie a una forza sconosciuta, sovrumana, lo spirito di Villa Torlonia, cantiere dell’immaginazione.

La salita conduce di nuovo verso la Casa delle Civette, sulla sinistra, s’apre un’altra via di fuga, tra le canne di bambù. Qui compare l’Estremo Oriente, l’Indocina dei viaggi senza ritorno, delle febbri, dei serpenti, dei guerrieri e delle amanti dai capelli di seta. Un salto spazio-temporale nel remoto che conduce all’ingresso del Casino dei Principi, sorvegliato da due sfingi alate. Una luce e un’ombra d’Egitto, un mistero di tombe, di sacro, di creature volanti che sorvegliano porte magiche, passaggi verso l’oltre mondo, casa di dèi potentissimi e riti (im)mortali. Villa Torlonia è splendido e rovinoso romanticismo, raggio dell’esoterico e dei suoi simboli, è divinità pagana e regno dei cieli, mistero del logos, della fede e dei lumi. A Villa Torlonia, per un infinito istante, ti ritrovi dove vorresti essere, nell’amorosa quiete delle tue braccia

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