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12 gennaio 2024
di Lidia Lombardi

Urbs Aeterna

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Il sole di mezz’inverno, radioso e già più alto all’orizzonte, esalta un altro, nuovo scrigno della Città Eterna. Perché è da oggi aperto a romani e turisti il Parco Archeologico del Celio con l’attiguo Museo della Forma Urbis. Una passeggiata nel cuore della più antica città, tra il Colosseo, il Palatino, la Passeggiata Archeologica. E’ il recupero di una fetta dell’Urbs che si attendeva da un secolo. Da quando, nel 1939, dissesti causati dalla costruzione della metropolitana B determinarono la chiusura dell’Antiquarium Comunale, aperto al pubblico solo nel 1929 per raccogliere i materiali venuti alla luce durante il fermento urbanistico seguito alla proclamazione di Roma Capitale d’Italia.

Ora molto è esposto nel giardino che occupa le pendici settentrionali del Celio (ingresso dal Clivio di Scauro 4, libero per il giardino, ore 7-17,30, a pagamento per il museo). In un percorso che va a lambire la parte più bassa dell’Anfiteatro Flavio, quinta attrattiva per eccellenza. Sono cippi funerari, resti architettonici – architravi, enormi monconi di colonne, capitelli  – e insieme lastre incise, resti di pozzi casalinghi, coperture di sarcofagi (emozionante quella che riproduce l’abbraccio di due sposi).

Domina i vialetti tra le vestigia -  mirabile antiquarium all’aperto - una candida architettura ottocentesca, la Casina Salvi, una coffee-house realizzata sulla suggestione di quella del Pincio (la Casina Valadier) che – appena restaurata insieme con l’aggraziata fontana tonda antistante – sarà presto adibita all’originaria funzione, aggiungendo piacevolezza alla visita.

L’altro grande atout di questo luogo di delizie archeologiche e paesaggistiche è il museo della Forma Urbis, realizzato nell’edificio ex Gil, la palestra della Gioventù littoria. Qui, in una sala illuminata da ampie vetrate, il pavimento è interamente costituito dalla riproduzione di una grande mappa di Roma. Un pavimento praticabile, nei cui incassi sono stati sistemati i frammenti appunto della Forma Urbis, mitico reperto anch’esso esposto parzialmente, negli squarci della sorprendente storia capitolina.

Cos’era? A che cosa serviva? Era una mappa marmorea di Roma così come si estendeva nel terzo secolo, regnante l’imperatore Settimio Severo. Centocinquanta lastre di marmo, realizzate tra il 203 e il 211 dopo Cristo, ovvero tra l’anno della costruzione del Septizodium (il ninfeo monumentale rappresentato nella stessa pianta) e quello della morte appunto di Settimio Severo, menzionato su una delle lastre insieme al figlio, Caracalla, dispotico suo successore. Furono murate, occupando 18 per 13  metri, sulla parete di un’aula del Tempio della Pace, inglobata – nel puzzle di trasformazioni e di civiltà che segnano la storia della caput mundi – nel complesso dei Santi Cosma e Damiano, basilica e ospizio per pellegrini prospiciente i Fori Imperiali, accanto alla Basilica di Massenzio.

Furono poi incise, le lastre, basandosi sul grande rilevamento catastale della città, riprodotto in modo semplificato, e orientate, secondo l’uso romano, con il Sud-Est in alto invece che il Nord. Dunque, un monumento che ci tramanda il paesaggio urbano di Roma Antica: in una superficie di 235 metri quadrati ne erano rappresentati circa 13.550.00 della metropoli.

Il sindaco Gualtieri, primo visitatore del nuovo Parco e Museo, ha dunque ieri passeggiato sulla città imperiale riprodotta, fermando i suoi piedi sopra il colle del Campidoglio, e via via sul Colosseo, la Basilica Ulpia, il Foro, il Circo Massimo. E ha definito l’intervento di recupero urbanistico-archeologico realizzato sotto la direzione scientifica della Sovrintendenza Capitolina  uno strumento di “autoconsapevolezza” della città. Si è anche chiesto, il primo cittadino, quale funzione avesse la Forma Urbis, se pratico-amministrativo o se decorativo.

Probabilmente la seconda, poiché le 15 lastre furono murate su di un basamento alto quattro metri – ancora si vedono le tracce dell’inserimento delle staffe di ferro sulla parete di quello che fu il Tempio della Pace, eretto nell’omonimo Foro per volere di Vespasiano, dopo la sanguinosa conquista di Gerusalemme – e dunque poco leggibile ad altezza d’uomo. Probabile che avessero piuttosto una finalità propagandistica, di celebrazione del potere, come “specchio” della grandiosità dei monumenti, evidenziata anche dall’uso del colore.

Claudio Parisi Presicce, sovrintendente capitolino ai Beni Culturali,  ha ripercorso le alterne vicende della Forma Urbis. La quale fu scoperta nel 1562, appunto nel complesso di Cosma e Damiano, e collocata a lungo in palazzo Farnese. Cominciò qui il suo disgregamento: le lastre furono in parte frantumate, usate come materiale da costruzione per i lavori farnesiani del Giardino sul Tevere. Poi entrò a far parte delle Collezioni  dei Musei Capitolini, trovando posto nel 1742 sullo scalone del Museo. Ma quel che ne rimane oggi è il dieci per cento.

Alcuni dei tanti frammenti sono da identificare. E quelli certi sono stati appunto incastonati nel Museo del Celio, nel pavimento trasparente che riproduce sotto al vetro la mappa di Roma elaborata nel 1748 da Giovan Battista Nolli, ingegnere, architetto, cartografo. Il lavoro di inserimento continua, ha spiegato Presicce, teso all’interpretazione di altri pezzi marmorei, per ora esposti nelle stanze del museo ricavato nell’ex Gil.

Tutti i lapidei di grandi dimensioni restarono qui: ora fanno parte del giardino archeologico, creando un libro della Roma imperiale, dai cippi funerari, a quelli di confine, dell’alveo del Tevere, del Pomerio realizzato da Claudio,  perfino dallo smontaggio della Porta Flaminia

Articolata e affascinante anche la vicenda del Giardino del Celio. Un colle che fa da cerniera tra i Fori e l’Appia Antica, un “buco nero” – come lo ha definito Presicce – che i restauri e il work in progress stanno colmando. Alla fine del XVI secolo era una vigna, all’inizio dell’Ottocento mutò il suo aspetto (e altezza) a causa delle migliaia di metri cubi di terreno (e resti antichi) riversati durante gli scavi del periodo di dominazione napoleonica. Papa Gregorio lo trasformò in orto botanico e nel 1826 fu costruita la coffee-house del Salvi.

Aggiunge Parisi Presicce: “Durante la sua ristrutturazione, attuata con i fondi del Giubileo, abbiamo ritrovato i resti del tempio del Divo Claudio – imperatore suo malgrado alla immatura morte del fratello Germanico – e del suo acquedotto, vestigia che verranno presto recuperate per il pubblico”. Nel 1883 fu la volta dell’Antiquarium, finalizzato a magazzino archeologico di quanto emerso dagli sterri dei cantieri di Roma Capitale. Nel 1929 l’inaugurazione per la cittadinanza, nel 1938 la chiusura per i dissesti accennati in apertura. “Tutti i lapidei di grandi dimensioni restarono qui: ora fanno parte del giardino archeologico, creando un libro della Roma imperiale, dai cippi funerari, a quelli di confine, dell’alveo del Tevere, del Pomerio realizzato da Claudio,  perfino dallo smontaggio della Porta Flaminia”.

Al tramonto, dal Parco del Celio si squaderna la magnificenza di Roma: laggiù a destra la Torre delle Milizie, la torretta con il Tricolore del Quirinale; di fronte il campanile di Cosma e Damiano, a sinistra l’”ombra” del Vittoriano, le costruzioni Farnese sul Palatino circondate dai celeberrimi Horti; e, ancora più lontano, la mole bianca della Fao e il cilindro reticolato del Gazometro. I secoli, dall’antichità al Novecento, mischiandosi ci parlano.

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