
Dopo cinquant’anni di assenza, Lohengrin torna sul palcoscenico del Teatro Costanzi di Roma come un cavaliere che emerge dalla nebbia del tempo. Il 27 novembre l’Opera della capitale inaugura così la sua stagione con un titolo che intreccia leggenda e politica, visione e rito collettivo. Un ritorno atteso, affidato al debutto wagneriano di tre interpreti di spicco — Michele Mariotti, Damiano Michieletto e Dmitry Korchak — chiamati a misurarsi per la prima volta con un’opera che non concede appigli facili, né sul podio, né in scena, né in voce.
Per Mariotti, Lohengrin è il naturale approdo di un percorso costruito passo dopo passo sin dal suo insediamento come direttore musicale. «Volevamo un teatro capace di rivolgersi a un pubblico curioso, pronto a linguaggi differenti. In questo cammino, Wagner era inevitabile», racconta. È l’ambivalenza della partitura a sedurlo: la solennità che richiama un’epoca storica densa di tensioni e, insieme, quella scrittura sospesa e visionaria che spalanca un mondo fiabesco. Un doppio respiro che attraversa l’intera produzione.
Anche per Michieletto — che torna a inaugurare la stagione romana dopo La damnation de Faust, Premio Abbiati come miglior spettacolo nel 2017 — l’incontro con Wagner ha il sapore della soglia. «Ho cercato di restituire ai personaggi la loro umanità, non trattarli come simboli», spiega. Nel suo allestimento la lotta tra individuo e massa non è una cornice astratta, ma una pressione concreta che modella gesti, sguardi, esitazioni. La storia d’amore tra Elsa e Lohengrin diventa così il cuore pulsante di un’opera che, pur essendo immersa nel mito, conserva una verità drammatica intensamente terrena.
Attorno al debutto di Dmitry Korchak — voce tra le più raffinate del belcanto, ora sospesa tra la liricità e la tensione eroica del cavaliere del Graal — si muove un cast di grande rilievo. L’Elsa di Jennifer Holloway, al debutto sul palcoscenico del Costanzi, porta in scena una purezza inquieta, un personaggio che vibra nella fragilità e nel desiderio. Clive Bayley offre a Heinrich un’autorità mai rigida ma profondamente umana; Tómas Tómasson scolpisce un Telramund dal dramma teso e concreto; Ekaterina Gubanova attraversa la scena come un’Ortrud magnetica, quasi ipnotica; mentre Andrei Bondarenko dà voce a un banditore del re terso, elegante, solido. A completare il quadro sono i giovani artisti della “Fabbrica” — Alejo Álvarez Castillo, Dayu Xu, Guangwei Yao e Jiacheng Fan — chiamati a incarnare i nobili brabantini: quattro volti nuovi che segnano il dialogo vivo tra tradizione e futuro.
Il nuovo allestimento, coprodotto con il Palau de les Arts di Valencia e il Teatro La Fenice, si avvale delle scene essenziali e mutevoli di Paolo Fantin, dei costumi di Carla Teti, delle luci scolpite da Alessandro Carletti e della drammaturgia di Mattia Palma. Orchestra e Coro dell’Opera di Roma — quest’ultimo guidato da Ciro Visco — costruiscono la tessitura sonora su cui l’intero edificio poggia, sostenendo la monumentalità dell’opera senza mai soffocare la sua dimensione più intima. Così, tra mito e politica, tra fiaba e coralità, Lohengrin torna a Roma portando con sé il sapore delle grandi occasioni. Un ritorno che non guarda indietro per nostalgia, ma come a una radice da cui ripartire. Un cavaliere che, una volta ancora, varca la soglia del teatro consegnando al pubblico la promessa luminosa di un nuovo inizio.