Bellezza e seduzione, la lezione di Mucha
La Bellezza salverà il mondo. E’ la Weltanschauung di Alphonse Mucha, l’artista ceco in cima all’Olimpo dell’Art Nouveau. Un pioniere della comunicazione pubblicitaria, con le sue litografie che trasformate in manifesti tappezzarono la Parigi a cavallo tra Otto e Novecento. Un esploratore dei nuovi mezzi artistici, dalla fotografia al cinema. Ma anche un pensatore, instancabile nella ricerca spirituale, affascinato dal misticismo, dalla teosofia, dall’indagine sulle forze misteriose che regolano la Natura. Fino a derivarne un’equazione: la Bellezza genera Gentilezza, che genera Felicità, che conduce a un Mondo Migliore. Così ne ha condensato il pensiero il bisnipote, Marcus Mucha, presente alla vernice della mastodontica mostra sull’artista che si apre oggi a Roma, a Palazzo Bonaparte (fino all’8 marzo 2025). Arrivano dalla Fondazione Mucha 150 opere, a illustrare il “trionfo della Bellezza e della Seduzione”, come è sottotitolata la rassegna, in collaborazione con Arthemisia e i Musei Reali di Torino. Un omaggio alla donna in uno stile raffinato e sensuale.
E però rovesciando il concetto di donna oggetto: le figure femminili del ceco ti guardano dritte negli occhi, affermano la consapevolezza di sé anche nelle grandi dimensioni dei soggetti, sono motore di Storia: una donna moderna, incarnazione di forza e dignità, anche simbolo e idolo culturale oltre che morale.
Ecco allora il sodalizio con chi lanciò Mucha. Sarah Bernhardt, la “Divina” delle scene teatrali. Per lei il giovane giunto a Parigi sul finire dell’Ottocento, che intesse relazioni con Gauguin e Strindberg, crea il manifesto per la rappresentazione di “Gismonda”: l’attrice rimane affascinata dall’originalità della composizione ad altezza naturale, dai contorni fluidi, dai colori pastello. E’ il Capodanno 1895, la locandina conquista la Ville Lumière, Mucha creerà altre illustrazioni – Medea, la Signora delle Camelie – oltre a costumi e scenografie per le messinscena.
E’ l’avvio della mole di lavori capaci di portare l’arte nelle strade di Parigi: illustrando biscotti al pari dell’Esposizione Universale del 1900 – Mucha si dedicò anche al Padiglione della Bosnia Erzegovina, affiancando a un’austera figura femminile le vedute più celebri dell’impero austroungarico – dei profumi, dei cioccolatini, dei prodotti per l’infanzia, come quelli fabbricati da Nestlè. Con un’intuizione, che sarà poi il nocciolo del branding: la ripetizione della stessa figura nei vari formati, dal manifesto alle confezioni, in modo che il prodotto pubblicizzato si imprima nella mente dei consumatori.
La rassegna romana sciorina un cumulo di immagini, nelle quali la bellezza muliebre è declinata infinite volte: sono tuttavia immagini che conosciamo, di cui conserviamo l’eco visiva, perché l’eredità di Mucha è riemersa negli anni Sessanta del Novecento, allorché girarono le riproduzioni dei suoi cartelloni influenzando la cultura pop – gli artisti psichedelici, il rock and roll – la creatività del Giappone, fino ai manga, ai tatuaggi, ai videogiochi. Quello che invece più intriga, nella talvolta ripetitiva esposizione capitolina, è il Mucha meno scontato, illustratore del Padre Nostro, in un volume pubblicato nel 1899 in 510 copie numerate, nel quale la preghiera è suddivisa in sette versi con altrettante serie di tre tavole decorative ed è concepita come messaggio alle generazioni future sui progressi del genere umano.
In una delle ultime sezioni, poi, ci imbattiamo finalmente nel Mucha che usa il pennello, dove lo stile lascia la decorazione dell’Art Nouveau, e si fa rarefatto, agganciando meglio il simbolismo e quasi dissolvendo l’immagine. L’avvio di questa evoluzione è nell’olio su tela del 1918 “Song of Boemia” – una giovane in primo piano seduta sull’erba delle colline boeme intona il canto che unifica il popolo ceco nell’anno della indipendenza della Nazione. Mucha è tornato in patria nel 1910, forte anche della notorietà acquisita negli Stati Uniti, dove ha pure tenuto corsi di pittura. Si mette al servizio del suo Stato, disegna banconote e francobolli, presenti a Palazzo Bonaparte. Seguono i bozzetti relativi all’Epopea Slava. E’ un monumentale ciclo pittorico – finanziato da un imprenditore americano – che narra i momenti fondamentali della storia slava, dal XIII al XX secolo, riaffermando la fedeltà dell’artista alle proprie radici. Tanto forte da essere invisa ai Nazismo, che confischerà le enormi tele, ora esposte in Moravia, la regione natale di Mucha, che morirà a Praga nel 1939.
L’altro appeal della esposizione capitolina è il raffronto con l’arte antica. Ecco la Venere Pudica, del secondo secolo dopo Cristo, con la perfetta levigatezza del corpo sinuoso. Ecco il rilievo “Le Menadi danzanti”, gli abiti che fluttuano leggeri al pari di quelli liberty. Ecco soprattutto la Venere di Botticelli proveniente dalla Galleria Sabauda, dipinto nel quale la figura della dea è decontestualizzata, esaltando la grazia delle forme, il movimento ondeggiante dei capelli. Del resto Mucha ha ribadito sempre la derivazione della sua Art Nouveau dal passato, a dispetto del nome. Ideali antichi di donne, dunque, coniugate nelle vibrazioni della modernità. Così affascinano i tre ritratti di Giovanni Boldini – altro pittore osannato nella Parigi Belle Epoque – che nella contessa de Rasty, ne “Il pianto” e nella raffigurazione rarefatta della nobildonna Saffo Zuccoli celebra il nervoso fascino muliebre.
Tutto il materiale espositivo è impaginato con sottofondo musicale, ambientato grazie a preziosi mobili dell’epoca – mirabili le due poltroncine con tavolino da fumo di Ernesto Basile, l’architetto del Villino Florio di Palermo – perfino profumato con essenze ispirate a Mucha.
Il quale scrisse, come in un lascito ideale, “preferisco essere qualcuno che crea immagini per le persone piuttosto che qualcuno che fa arte fine a se stessa”.