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21 ottobre 2023
di Lidia Lombardi

Laf, l'esordio 'laminato a freddo' di Riondino

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Raramente il cinema italiano, specie negli ultimi anni, affronta temi sociali. E ancora meno rivolge la cinepresa all’ambiente operaio. Lo ha fatto invece Michele Riondino, il popolarissimo attore televisivo (consacrato dalla serie “Il giovane Montalbano”) ma anche apprezzato volto del grande schermo. “Palazzina Laf”, in anteprima alla Festa del cinema di Roma nella sezione Grand Public (sarà nelle sale il 30 novembre), segna infatti il suo esordio alla regia cinematografica. Ed è un esordio doppiamente significativo: perché il film è vibrante, ben costruito, ottimamente recitato (il protagonista è proprio lui, Riondino) e perché, appunto, accende i riflettori su un tema e un genere da decenni – anni del riflusso? – messo da parte.

Parte da fatti realmente accaduti: Laf è acronimo di laminato a freddo e il piccolo squallido edificio che ne porta il nome è stato nel 1997 il posto nel quale i dirigenti dell’Ilva di Taranto – sollecitati dai proprietari, la famiglia Riva – confinarono 79 impiegati che si erano opposti alla cosiddetta “novazione”, ovvero al demansionamento stabilito dalla riorganizzazione aziendale per contrarre il personale. In sostanza, i lavoratori – ingegneri, informatici, segretarie – vennero spediti nella palazzina Laf a non fare niente, a meno che non accettassero di essere reimpiegati come operai, negli altoforni. Una tecnica di feroce di oppressione psicologica e fisica (i vigilantes erano sempre pronti a intervenire), il primo caso di mobbing in Italia, sanzionato da una sentenza giudiziaria che ha condannato padroni e dirigenti dell’Ilva, individuando il reato di violenza privata.

Riondino – che ha scritto il soggetto e la sceneggiatura insieme con Maurizio Braucci – oltre che sugli atti del processo si è basato sulle interviste ai protagonisti della vicenda, ex lavoratori dell’Ilva ed ex confinati. Ma il racconto cinematografico si sviluppa definendo a tutto tondo un personaggio emblematico. Caterino Lamanna, operaio reso rude dalla fatica e dalla paga risicata che vive in una masseria fatiscente vicino all’acciaieria, viene “agganciato” – è il 1997 -  da un dirigente, Giancarlo Basile, che gli propone di fare il delatore, intrufolandosi nelle riunioni sindacali e segnalando i lavoratori più agguerriti contro i padroni. In cambio lo promuove caposquadra e gli mette a disposizione un’auto aziendale. E Lamanna accetta, lusingato dal nuovo ruolo e dall’aumento di stipendio, che gli permetterà di trasferirsi in città con Anna (Eva Cela), la straniera dell’Est Europa con la quale convive. Non si fa scrupoli, l’operaio: arriva a pedinare Renato Marra (Fulvio Pepe), un sindacalista, quando si reca nello studio di un avvocato per promuovere un’azione collettiva contro i datori di lavoro. E alza l’asticella delle richieste: vuole andare alla Palazzina Laf, dove si è intrufolato per caso, scovando quello che ai suoi occhi pare una sorta di paese dei balocchi. Nella sequenza di stanze scorge nullafacenti che passano il tempo a giocare a carte, a pregare, ad allenarsi con i pesi, a prepararsi il pranzo, salvo poi far finta di telefonare da un apparecchio rotto all’odiato Basile indirizzandogli un fragoroso rutto.

La rozzezza non permette mai a Caterino di aprire davvero gli occhi. Arriverà perfino a fare la spia su una lettera di denuncia che i “prigionieri” della palazzina Laf progettano di consegnare al vescovo, in visita alla fabbrica. Non lo tocca quello che gli dice Aldo, uno dei demansionati (Michele Sinisi): “Vi siete mai chiesti come accanto alla più grande acciaieria d’Europa non ci sia nemmeno una fabbrica di forchette? Il nostro acciaio serve per costruire la ricchezza di qualcun altro”. E neanche la polvere rossa della diossina, che respira assieme al fumo delle troppe sigarette, e che vede scorrere nei rigagnoli quando piove, gli mette pensiero. Anzi, nella smania di trasferirsi in città, accetta di andare a vivere nel quartiere Tamburi, una piaga spesso denunciata nelle cronache di Taranto per gli innumerevoli casi di tumori ai polmoni. Certo, qualche sussulto della coscienza lo scuote. E però resta inchiodato nel suo ruolo, autoassolvendosi grossolanamente anche quando testimonia al processo scaturito da un’ispezione ministeriale. E rimanendo comunque imprigionato nel suo sgabuzzino in fondo al corridoio della Palazzina, scosso dal rantolo della tosse.

Tutto questo Riondino rappresenta ricorrendo non al naturalismo presente nelle pellicole di Ken Loach, che pure affrontano spesso il tema della condizione operaia. Piuttosto, accanto agli squarci più oggettivi, frutto di un lavoro di documentazione durato sette anni, si impongono registri grotteschi e surreali, che rimandano a opere come “La classe operaia va in paradiso” di Elio Petri. Così soprattutto negli interni della Palazzina Laf, quel  corridoio claustrofobico dalle cui porte spuntano i confinati, come fossero celle di un carcere o di un manicomio. O in quella pecora della casa-masseria del protagonista, che stramazza rantolando, così come rantola un suo collega, vittima del “male oscuro” che affligge la città. O nell’incubo che lo tormenta, la soffocante processione della festa patronale, nella quale si vede raffigurato come Giuda accanto alla statua di Cristo, portata a spalla dai figuranti.

Gli stessi interpreti hanno volti contorti nella rabbia, nella sfiducia, nella fatica, nella coercizione, nella fobia, che il dialetto pugliese emulsiona efficacemente. Riondino è tutto rughe, denti gialli, cipiglio sfottente di chi è comunque uno sciagurato senza futuro. Elio Germano ha il sorriso sarcastico e ambiguo del piccolo aguzzino di fabbrica. Vanessa Scalera, la disillusione annoiata della lavoratrice costretta all’emarginazione. Una non-vita che anche gli esterni rilanciano: di Taranto il mare si vede sono attraverso le squallide sterpaglie della strada che conduce alla fabbrica, sullo sfondo delle ferali ciminiere. E il destino infelice è pure nella struggente canzone originale della pellicola, “La mia terra” di Deodato,  pugliese e civilmente impegnato al pari di Riondino.

Avrebbe dovuto avere un terzo sceneggiatore, questo film: il giornalista Alessandro Leogrande, autore di una inchiesta sul caso della Palazzina Laf  venuto a mancare durante la gestazione della pellicola. Riondino ricorda quanto scrisse: “…iI confinato diventa un monito per tutti gli altri, per tutti quelli cioè che continuano a lavorare alla catena. Se non ti comporti bene, ecco cosa ti aspetta…Allo stesso tempo, chi è spedito al reparto confino è costantemente esposto al ricatto di passare dal confinamento al licenziamento, di cadere dalla padella nella brace”.

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