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18 ottobre 2023
di Lidia Lombardi 

Neorealismo in bianco e nero

Paola Cortellesi  - C'è ancora domani
Paola Cortellesi  - C'è ancora domani
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La cronaca racconta ogni giorno di femminicidi, di donne maltrattate. Paola Cortellesi – con “C’è ancora domani” che ha dato il la alla Festa del Cinema di Roma e che segna il suo debutto alla regia dopo soddisfacenti prove di sceneggiatrice tra cui “Come un gatto in tangenziale” oltre a quelle di attrice – accende i riflettori proprio sui diritti delle donne, calpestati in famiglia, al lavoro. Non lo fa con una vicenda di oggi ma con l’antefatto storico della perdurante disparità.

Il film si ambienta nel ’46, quando ancora le jeep della Military Police statunitense presidiano le strade di Roma. Delia, la protagonista, è una madre di tre figli, la sua casa è un seminterrato con mobili e pareti scrostate in un condominio in cui le donne fanno crocchio e pettegolezzi in cortile. Sgobba, per tenere pulita la casa. Fa lavoretti per contribuire allo scarno ménage familiare. Ed è il quotidiano bersaglio del marito, Ivano, che la considera un’”incapace”: botte a ogni scusa, e sentendosi assolto, anche da Delia, perché “ha fatto due guerre”. L’altro aguzzino, morale, è il suocero, sor Ottorino, allettato, un passato di strozzino, che al figlio ha inculcato la legge del patriarca più insensibile.

Delia fatica e non ha consapevolezza di sé: lo schiaffo di Ivano di primo mattino, al posto del buongiorno, è prassi da accettare supinamente. Si lava, infila il vestitino liso, prepara la colazione a tutta la famiglia, poi, il passo svelto di chi non può perdere tempo, va in casa di signori a fare le punture, e lavare le lenzuola, dalla merciaia a consegnare reggiseni e calze rammendate, dall’ombrellaio dove istruisce il praticante ad aggiustare i parapioggia e quando chiede conto del perché il ragazzetto appena arrivato guadagna più di lei si sente rispondere: “Quello è omo, no?”.

Accarezza però qualche sogno, Delia. Il fidanzamento della figlia, Marcella, corteggiata dal figlio di burini ripuliti, che hanno un bar. Insomma, un buon partito (e anche dai modi delicati, ma solo all’apparenza). E gli sguardi che ancora si scambia, quando passa davanti all’officina di meccanico d’auto, con la fiamma di trent’anni prima, una storia finita per le indecisioni di lui, che se n’è pentito inducendola, come tutte le donne dell’epoca, a legarsi con un altro, per sposarsi comunque. Però s’insinua piano piano in lei un piccolo germe di consapevolezza, alimentato anche dalle confidenze con l’amica Marisa, fruttivendola. E dall’incitamento della figlia, che non sopporta le angherie del padre-padrone. Perfino da un soldato Usa nero, al quale ha consegnato una foto della sua famiglia (“Sarà tua perché so’ tutti negri”) e che vedendole i lividi sul collo e sulle braccia insiste per capire chi la maltratta. E poi c’è una lettera, che Delia riceve e che prima butta nel cestino e poi recupera, dopo l’ennesimo sfogo d’ira del marito.

Allora Delia comincia a considerare la vita sua e delle donne che la contornano. La merciaia è vedova, tira avanti il negozio pur non portando i pantaloni. Marisa va d’accordo col marito, e nei momenti delle confidenze si fuma con lei una sigaretta, primo segno di emancipazione. Le ragazze benestanti vanno a scuola, mentre Ivano destina i pochi soldi che ha solo per l’istruzione dei due figli ragazzini. La stessa Marcella continuamente la invita a reagire, andandosene, alla brutalità del padre. E davvero Delia organizza un piano per mollare tutti, fuggendo al Nord insieme con quel meccanico che ancora le vuole bene e che sta chiudendo bottega perché il lavoro è poco, e invece al Settentrione c’è già il sentore del boom.

Quella lettera è la molla per cambiare la storia. Dell’Italia e di Delia. Anche se lei giunge in ritardo all’appuntamento con il cambiamento e la conquista di dignità e libertà. Ma appena appena in tempo, e l’aiuta proprio la figlia, la donna del futuro alla quale Delia sorride nel sorprendente finale del film, serrando però le labbra, come per sancire il segreto e una promessa, piuttosto che per star zitta e subire.

“La metamorfosi di Delia coincide con la metamorfosi del nostro Paese – dice Paola Cortellesi - ma per la mia protagonista è una trasformazione quasi istintiva, che viene dall’amore per la figlia, per impedire che anche lei sia considerata dall’uomo che sta per sposare una cosa da possedere”.

Tutto questo Cortellesi racconta ricostruendo con pignoleria la Roma del ’46, anche con l’uso schietto del romanesco. Il film è “neorealisticamente” in bianco e nero (la fotografia però usa il chiaroscuro come i colori), così come scolorita è l’esistenza della protagonista, alla quale la regista-attrice presta  volto e  corpo, plasmati a tutto tondo, dalla camminata svelta sul lungotevere, la borsa della spesa sottobraccio, agli sguardi, di paura, di complice intesa, di fatica, di smarrimento, di progetti e paragoni: con le donne che le stanno intorno e che in qualche raro caso non sono come lei, meno di niente. E lo racconta – nella sceneggiatura scritta in collaborazione con Giulia Calenda e Furio Andreotti – con battute memorabili (“L’americani quanto so’ belli, cianno tutti i denti, me sa pure de più”) e sequenze che infiltrano nel dramma l’ironia. Dal pranzo con i futuri suoceri, giocato sulla tensione di Delia e Marcella per nascondere la miseria e la volgarità di Ivano e soprattutto del suocero/nonno, e invece infarcito di inevitabili cadute di stile dei commensali. E soprattutto nella veglia funebre di Ottorino, che muore all’improvviso proprio nell’epico giorno del referendum Monarchia-Repubblica: con la sfilza dei vicini falsamente contriti, la vecchietta seduta per ore a pregare sulla salma anche se nessuno la conosce e l’”orazione funebre” di Delia e Marisa che si traduce in una serie di improperi per il vecchiaccio.

“Nella vita reale capita che il dramma possa essere mitigato da una risata. Il disincanto fa parte del mio modo di lavorare”, spiega Cortellesi. E infatti la pellicola gode di una efficace invenzione registica. Le scene dei pugni, dei ceffoni, delle capocciate sono “attutite” dalla trasformazione dei gesti violenti in figure di ballo: Ivano tende la mano per colpire e invece, sulle note vivaci, pare che la porga a Delia per una giravolta. Anche la musica svolge questa funzione di straniamento: moderna, sincopata (la colonna sonora è di Lele Marchitelli, ma c’è anche “La sera dei miracoli” di Lucio Dalla).

Giova alla pellicola la prova degli interpreti: Valerio Mastandrea è un Ivano rozzo, teatrale nella stizza e nel dolore per la morte del padre, ma pure capace di insicurezze. Giorgio Colangeli ha la maschera cinica di Ottorino. Romana Maggior Vergano è Marcella, occhi sgranati e indignati nella difesa silenziosa della madre. Vinicio Marconi il meccanico pieno di rimpianti, Emanuela Fanelli l’amica schietta.

Dopo il debutto in concorso della Festa di Roma, il film sarà nelle sale dal 26 ottobre. Cortellesi si augura che il pubblico colga il suo messaggio etico inviato in uno stile popolare. Con la lieve pecca di essere, specie nelle scene d’avvio, didascalico, indugiando su particolari scontati.

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