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9 ottobre 2023
di Lidia Lombardi

Nella fabbrica dei sogni

1986 Roma, Cinecittà, Federico Fellini sul set del film L'Intervista 
1986 Roma, Cinecittà, Federico Fellini sul set del film L'Intervista 
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Quando a Federico Fellini chiedevano in quale città gli sarebbe piaciuto vivere – e magari i più s’aspettavano la Rimini dei vagheggiamenti giovanili, degli affetti, dell’educazione sentimentale – il regista di Amarcord rispondeva invariabilmente: “Cinecittà”. Coerente, perché la maggior parte del tempo lo trascorreva là dove s’inveravano i suoi sogni, le invenzioni di cartapesta, le macchine ubbidienti al suo immaginario.

E c’era un altro posto, sempre a Cinecittà, nel quale il Riminese amava intrufolarsi. Lo studio di Dante Ferretti, lo scenografo tre volte premio Oscar che soprattutto con Fellini ha lavorato (ma anche con Scorsese, Tim Burton, Pasolini). Sullo smisurato tavolo Ferretti disegnava sfondi, oggetti, “visioni”. I quali, realizzati, sono diventati di culto. Come il cesto nel quale s’infila Mastroianni – il film è “La città delle donne” – e che viene tirato su come una mongolfiera in forma di procace bambola gonfiabile.

Quando a Federico Fellini chiedevano in quale città gli sarebbe piaciuto vivere il regista di Amarcord rispondeva invariabilmente: “Cinecittà”

Cinecittà è un “topos” di Roma. Un luogo imprescindibile. Perché se è vero che Roma è stata anche la Hollywood sul Tevere, che la sua storia del Novecento ha contemplato pure la Dolce Vita, che il cinema ha contribuito a segnare il boom del Dopoguerra, allora bisognerebbe includere tra i posti da non mancare nella Capitale appunto questa “fabbrica dei sogni”.

La quale da molti anni ormai si mostra al pubblico, non solo come un museo, ma come una vera e propria factory: i set sono tornati ad essere numerosi, anche stranieri, attratti dalla supremazia delle sue maestranze ma anche dal tax credit fino al 40 per cento delle spese sostenute. Fiction tv, spot, videoclip, fotoshooting si fanno nei suoi viali e nei teatri di posa. Il Pnrr le riserverà fondi per ammodernamenti. I numeri già sono superlativi: dal 1937 (Mussolini la inaugurò il 28 aprile di quell’anno) sono stati girati tremila film (e 51 hanno vinto l’Oscar), 400 mila sono i metri quadrati di spazi per la produzione, 100 mila quelli di backlot con quattro set permanenti, 19 i teatri di posa, 400 gli ambienti tra camerini, sale trucco e uffici.

Dieci anni fa poi anche Federico è tornato a qui. Un Fellini giovane, alla scrivania del “Marc’Aurelio”, la rivista dove cominciò a lavorare; seduto nella platea di un teatro d’avanspettacolo o a un caffè del centro di Roma. Nello suo studio, contrassegnato dal numero 5, il più grande d’Europa, il cuore di Cinecittà – “monumento” italiano tutelato dai Beni Culturali – nel 2013 si è girato infatti “Che strano chiamarsi Federico”, l’ultimo film di Ettore Scola, che fu a fianco dello spilungone riminese nella redazione del “Marc’Aurelio”. Da allora i  3.200 metri quadrati dello Studio 5 sono stati aperti al pubblico.

E la Palazzina Fellini è diventata una delle tre sedi delle mostre con le quali Cinecittà si racconta: dagli anni Trenta alla seconda guerra mondiale, con un allestimento che include la ricostruzione in vetroresina di tre archi del “Colosseo quadrato”, l’edificio razionalista dell’Eur amatissimo dal regista di 8 e 1/2.

Una città dentro Cinecittà, la Palazzina Fellini. L’allestimento porta la firma, ovviamente, del “complice” più assiduo, Dante Ferretti. Che ha ricreato uno spazio fisico e insieme onirico. Nella sala centrale, tappezzata alle pareti dalle locandine delle pellicole, la storica Fiat 125 nera usata dai due per i viaggi alla ricerca di suggestioni, ma anche il veicolo col quale il regista si recava da via Margutta, dove abitava, al set. Accanto, la “Casa di piacere”, dove l’immaginario erotico-casereccio di Fellini rivive ironicamente. Campeggia al centro il famoso scivolo toboga foderato di velluto rosso de “La città delle donne”.

Ecco allora che attorno a un Marcello Mastroianni in grandezza naturale si assiepano le soubrettine vestite con piume di struzzo e poco altro. Infine l’ambiente con la ricostruzione del “Fulgor”, il cinema di Rimini nel quale avvenne l’“iniziazione” di Federico al mondo della fantasia e delle immagini.

Una chance in più per chi vuole conoscere Cinecittà. Ma tutto il tour dentro i confini dello stabilimento di via Tuscolana 1055 è capace di emulsionare l’immaginario collettivo, di unire ragione e sentimento. Fin dall’ingresso: ti metti sotto il portico di travi di cemento, sotto la scritta CINECITTA’, e di fronte hai ancora un pezzo di campagna romana, con le pecore che pascolano e, in fondo, i pini e l’acquedotto. Dentro poi, lo “scontro” è tra i viali dritti e alberati, gli essenziali studios (22, ma non c’è il numero 17, perché la gente di spettacolo è superstiziosa), insomma l’architettura razionalista ideata dal friulano Gino Peressutti, e il magma di creatività che bolle nei capannoni.

Tutto il tour dentro i confini dello stabilimento di via Tuscolana 1055 è capace di emulsionare l’immaginario collettivo, di unire ragione e sentimento.

La funzionalità fu l’imperativo di Peressutti: niente fronzoli, lesene di cemento a vista. All’interno, ballatoi per permettere i movimenti dei tecnici, tetti spioventi per favorire le riprese dall’alto, botole per aumentare lo spazio dell’inquadratura o da riempire d’acqua. Fellini nello Studio 5 ricreò la laguna di Venezia per Casanova. E l’enorme, enigmatica Venusia ideata per questo stesso film dallo scenografo Danilo Donati sembra stare a guardia dello stabilimento, sistemata com’è al centro del prato che orna il piazzale d’ingresso.

Celate dietro varchi seriali ci sono invece wunderkammer. Appunto lo stanzone di Ferretti che conserva accanto alla scrivania, al tavolone con cavalletto dove “stende” i suoi bozzetti, il mascherone di cartapesta realizzato per “Le avventure del Barone di Munchausen” di Gilliam. O come le sale di CinecittàSiMostra, l’esposizione che racconta in che modo si fa un film. Ecco la stanza della sceneggiatura, che spiega i passaggi dal soggetto al testo filmico; ecco la sequenza di vetrine con i costumi indossati per esempio da Claudia Cardinale e Henry Fonda per “C’era una volta il West” di Sergio Leone, o l’abito di Sophie Marceau in “Anna Karenina” di Bernard Rose. E la sala del sonoro, nella quale si scompongono le tracce audio (dialoghi, rumori, colonna sonora), quella degli effetti speciali e del Green Screen, la tecnica digitale del Chroma Key che consente di ambientare soggetti e oggetti su sfondi virtuali. Fino al tunnel che introduce alla cabina del sottomarino S33 per “U-571” di Mostow. O le suppellettili di altri allestimenti scenografici di pellicole-mito, da “Vacanze romane” a “Ben Hur” a “Cleopatra”.

All’esterno il tuffo nel passato è facile. La Broadway di “Gangs of New York”, la pellicola girata qui da Scorsese nel 2002, è set che subisce continue metamorfosi: una facciata ottocentesca è diventata per Pupi Avati quella di un palazzo bolognese anni ’40; o di Roma odierna, per il Verdone di “Posti in piedi in paradiso”. Più in là la Roma dei tempi di Cesare – con i templi colorati, com’erano davvero i marmi Spqr, lo scorcio della Suburra e del selciato dell’Appia – confina con una piazza dell’antico Egitto.

Il set chiamato “Roma antica”, 4 ettari realizzati in vetroresina per la serie tv “Rome” di Hbo, è stato poi utilizzato per “I Borgia”, un videoclip di Ligabue e l’esibizione dei Coldplay. La messinscena del Tempio di Gerusalemme disegnato da Francesco Frigeri nel 2016 per “The Young Messiah” di Cyrus Nowrasteh è sconfinata anche su quella detta “Firenze del ’400”: ideata inizialmente per la serie televisiva “Francesco” è stata modificata per “Amici miei – Come tutto ebbe inizio”, prequel firmato da Neri Parenti del cult movie di Monicelli e nel 2012 è stata adattata per “Romeo and Juliet” di Carlo Carlei.

La Broadway di “Gangs of New York”, la pellicola girata qui da Scorsese nel 2002, è set che subisce continue metamorfosi: una facciata ottocentesca è diventata per Pupi Avati quella di un palazzo bolognese anni ’40; o di Roma odierna, per il Verdone di “Posti in piedi in paradiso”.

Nella Palazzina Presidenziale uno degli ultimi allestimenti, “Grande Cinecittà 1937-1990”. La reverie restituisce la storia della Settima Arte con immagini, video, costumi, indossati da Penelope Cruz e Michelle Pfeiffer, da Scarlett Johansson e da Isabelle Huppert, da Vittorio Gassman e da Walter Matthau. Roma bombardata non può mancare con l’omaggio al Neorealismo. La citazione della Commedia all’italiana è d’obbligo. Quelle di Pasolini e del Sergio Leone di “C’era una volta in America” accendono altri entusiasmi.

Il “pellegrinaggio” di molti visitatori non disdegna la casa del Grande Fratello. Sotto i pini di un immaginario Poggio Fiorito, la villetta della famiglia Martini, la più famosa d’Italia, dove nel tran tran hanno modo di agitarsi le passioni di “Un medico in famiglia”, la serie andata in onda su Raiuno dal 1998 al 2016. Nonno Libero nel frattempo è diventato trisnonno. E a Lino Banfi non dispiacerebbe vestirne di nuovo i panni, in un finale dei finali. L’unifamiliare disegnata dallo scenografo Luciano Ricceri aspetta di riaprire portoncino e finestre.

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